Legno, mattoni a vista, tappeti, poltroncine imbottite, specchi, cornici, boiserie, dettagli british. Nulla evoca l’iconico minimalismo nipponico. Eppure? Eppure è osservando meglio che i masu, i tradizionali bicchieri lignei per sorseggiare il sake, balzano all’occhio, così come le pareti interamente tappezzate di bottiglie. E ancora, le pregiate mobilia di antiquariato giapponese, nonché la maxi mappa magnetica del Sol Levante. Con l’elenco di tutte le 47 prefetture.
A Milano, Sakeya è così: volutamente lontano dagli stereotipi. E autenticamente Japan oriented. Uno spazio intimo e riservato, nato non per sposare il cibo con il sake. Al contrario, per abbinare il sake al cibo. Della serie, tutto ruota intorno all’antica bevanda alcolica ottenuta dalla fermentazione del riso (a differenti livelli di levigatura). “L’unica che si possa servire calda, fredda e a temperatura ambiente”, precisa puntualmente il sake sommelier Yasumasa Yamasaki. Mentre serve il delicato e profumato Urakasumi Kiippon. Uno junmai tokubetsu (speciale), dalle note fruttate (di banana e litchi in primis) e umami, ottenuto dal riso sasanishiki, raccolto nella prefettura di Miyagi.
Sì, tutto si inchina al sake. Perché tutto è partito dal sake. Almeno per Lorenzo Ferraboschi e la moglie Maiko Takashima, fondatori di Sake Company: una realtà verticale. Che non solo importa sake di altissima qualità, ma si impegna pure a divulgare, valorizzare e far conoscere il sake. Anche grazie alla Sake Sommelier Association, della quale Lorenzo è l’unico responsabile in Italia. Che nel frattempo è diventato il Paese con il maggior volume di importazione della bevanda in Europa (superando l’Inghilterra). Mentre Sakeya si è affermata come una colta e raffinata House of Sake, contando su una cantina fornitissima. Oltre 150 infatti le etichette, che spaziano dalle proposte spumantizzate (happonshu) a quelle invecchiate in legno di cedro (koshu), da quelle affinate in botte (taru zake) a quelle novelle (shinshu). Passando per sake non filtrati (nigori sake), non diluiti (genshu), non pastorizzati (nama sake). E passando pure per altri distillati, come shochu, awamori, gin e whisky giapponesi, nonché umeshu, un liquore ottenuto dalla macerazione delle prugne, che si svela perfetto per i cocktail.
Cantina, ma anche cucina. Firmata dallo chef Masaki Inoguchi e pronta a stupire con piatti profondamente giapponesi, ma capaci di dialogare con il glocal pensiero. Lasciandosi piacevolmente contaminare da ingredienti non solo orientali. “Obanzai” recita la prima voce della carta (in pergamena). “Si tratta della tradizione culinaria di Kyoto. Qui tradotta in una serie di pietanze che possono far da antipasto, soprattutto se messe al centro del tavolo e condivise”, suggerisce Yasumasa. Vivande calde e fumanti, come la kinoko sakamushi: cocotte di funghi misti di stagione, brasati in terracotta e sfumati con sake e alga kombu. Tiepide, come la hotate unagi: millefoglie di anguilla grigliata con sashimi di capasanta, chips di polenta fritta, vellutata di mais e pepe sansho “au moulin”. Più fresche, come la kani no sugomori: insalata di granchio reale su nido di pasta kataifi, fettine di pompelmo rosa e cremoso di avocado e kimizu (maionese Japan style).
E per i beef lover? Wagyu tataki: tagliata di manzo scottata alla fiamma, con nuvola di riso soffiato croccante, uovo in camicia, insalata di daikon e salsa ponzu. Wagyu di assoluta eccellenza: il Miyabi della prefettura di Kyoto. Segni distintivi? Una marezzatura - la cosiddetta shimofuri - classificata A5+, il massimo livello. Per una carne dalla texure morbidissima e dal sapore inconfondibile. A importarla sono sempre Lorenzo e Maiko. Che, con la complicità di Paolo Tucci - laureato all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo - portano avanti il progetto di Wagyu Company. Anche in questo caso facendo cultura intorno al pregiatissimo manzo giapponese, grazie a degustazioni ed educational per i cuochi. Basti pensare che questi bovini sono allevati nel bel mezzo di pascoli silenziosi, nutrendosi principalmente di erba timotea e grano fino ai 34-36 mesi.
Wagyu che al Sakeya si fa pure sandwich, assumendo l’ittica foggia di un taiyaki homemade, ma con ripieno di tartare, corredato di scaloppa di foie gras d’anatra e confettura di cipolle rosse al rosmarino. Wagyu che sublima in roll fiammeggiati, per un sushi superbo. Wagyu che si fa bistecca e pure polpetta. Al plurale, niku dango: scottate alla piastra, con uovo morbido, cotto a bassa temperatura.
Ma poi arriva lei, la cosiddetta “Sumibi Kushiyaki”, sezione tutta dedicata alla brace giapponese al carbone. Che elegge a protagonisti gli spiedini. Voilà gli unagi, di anguilla in salsa teriyaki; i kabocha, di zucca di Hokkaido (dal retrogusto di castagna); i butabara, di pancetta di maiale; gli eringi, di funghi cardoncelli della Murgia. E poi di salmone, di wagyu e di pollo. Sotto forma di polpettine (tsukune) e di yakitori, un vero must dello street food nipponico. Ma cotto ai carboni è anche il black cod, filetto di merluzzo nero marinato in salsa al miso bianco e yuzu, affiancato a una brunoise di daikon crudo e orzo fermentato. Nel calice? Ideale il sake Dewanoyuki Kimoto, rotondo, pieno e fragrante. Uno junmai corposo, ottenuto da riso miyamanishiki della prefettura di Yamagata, levigato fino al 65%. Da notare che col termine kimoto s’intende una tecnica meticolosa (e faticosa) di mescolamento dello shubo (la madre del sake), per consentire la naturale produzione dell’acido lattico, utile alla fermentazione.
Brace dunque. Sulla quale finisce anche il kohituji, carrè di agnello marinato al koji e sposato con salsa dashi, daikon crudo e senape giapponese. Una delle specialità di chef Masa. Insieme al kamo yuzu, petto d’anatra marinato in confettura di yuzu, servito con baccalà mantecato alla vicentina e pepe sansho in grani; e allo yaki tako 3.0, polpo in tre cotture con crema di zucca e chips di patate dolci viola. In connubio: il sake Sogen Ishikawamon, figlio di un riso autoctono della prefettura di Ishikawa. Dove i pescatori amano sorseggiare il sake in tandem con il loro pescato.
Non dimenticando quelli che anche Yasumasa definisce “carboidrati”. Dal sushi di sgombro scottato e affumicato, con shiso verde, lime e tsukemono croccanti (sottaceti tipici) ai soba di grano saraceno con brodo caldo di cipollotto e wagyu stufato; dai ramen in brodo di gallina con bambù stufato, uovo marinato nella soia e pollo saltato ai masu chirashi, a base di riso aromatizzato allo shiso rosso con alga nori, sesamo tostato e salsa di soia; sino ai corroboranti shime yaki-don, bowl di riso con uovo in camicia, porro e salsa teriyaki, completati da pollo o salmone alla griglia, oppure da foie gras d’anatra.
E per dessert? Millefoglie con crema pasticcera e crema di fagioli azuki, o blanc manger di latte di cocco con meringa croccante, sorbetto alla pesca, cubetti di caco e crumble di pistacchio salato. Da bere? Kodakara Yuzu, un sake solare dal gusto agrumato.
Un’ultima curiosità. Il sake non si dovrebbe chiamare sake. Bensì, nihon-shu, perché con la parola sake si fa in realtà riferimento all’alcol in generale. Come ben puntualizza uno dei bigliettini-pillole di saggezza sparsi per il locale.