C’è un’oasi di otium nel bel mezzo del negotium milanese. Ozio nell’aureo significato latino, s’intende. “Quello del prendersi cura di sé. Del concedersi un momento di pausa e di benessere. Per rigenerarsi e ricaricare le energie”, precisa Valerio Tremiterra. Patron, insieme a una cordata di soci - fra i quali Uberto Breganze e Fabio Messinese - di un’insegna quasi in antitesi con la sua geolocalizzazione: Otivm, a due passi dalla dinamica Piazza Affari meneghina.
Basta infatti scostare la teatrale tenda in velluto per iniziare un’esperienza immersiva in un mondo parallelo. Ebbro di vetro, di ferro e di marmo. Di black e di red. Quello dei neon che campeggiano sulle pareti. Un ambiente seducente e sinuoso, a tratti pervaso da un elegante erotismo. Complici le luci soffuse, un ondivago soffitto costellato di lamelle e un ensemble giocato su matericità ed evanescenza. L’architetto Nick Maltese ha saputo dialogare in modo intrigante con la bellezza. E ha saputo pure far incontrare una teoria di metafisiche arcate dechirichiane con uno spazio geometrico e rigoroso, ospitato all’interno di un palazzo progettato da Gio Ponti. Un luogo onirico e surreale. Quasi sospeso fra sogno e realtà. Nel quale felicemente coesistono la riproduzione moderna - e rigorosamente artigianale - di una colonna bizantina e il morbido andare di un’altalena fiorita. Che appare (e scompare) cullando lo sguardo.
Un ristorante lounge dal look glamour, dal respiro globale ma con l’occhio puntato sul made in Italy. Se infatti posate, porta posate e pure la “quarta posata” (raffinata e contemporanea pinza pesca cibo) sono griffate Mepra (azienda luxury bresciana), la comoda seduta è la “Lisa” by Scab Design, eletta "Best Chair 2018" e prodotta sempre nel Bresciano. Il tovagliolo? Fuoriclasse pure lui. Rosso con tanto di logo blu - una mezza V corredata di puntino - cucito sopra.
Dettagli. Perché è nei dettagli che si cela la classe. Soprattutto quando questa non è acqua. E la piramidale bottigliera retroilluminata lascia presagire un’avvincente esperienza a tu per tu con l’arte della mixology. Qui ben espressa dal giovane bartender Giuseppe Russo. Che in lista mette i grandi classici ma anche “Gli Oziosi”, cocktail decisamente più maliziosi. Vedi il vanitoso “Otivm Parfum”, in duplice versione: per lui (con rum) e per lei (con vodka), ferma restando la presenza di St.Germain e fiori di sambuco. Ma vedi anche l’agrumato “Ondina di Gin”, con gin O’ndina (al basilico), Campari, Aperol e pompelmo; il “Marshmallow”, con tequila, succo di agave, lime e cranberry; e il “Sakura”, summa di gin Jinzu (con nipponici botanical come yuzu e fiori di ciliegio), cherry, lime e Parfait Amour, liquore dal colore viola. Ideali in abbinata a un tris di appetizer giunti direttamente dalla cucina. Ad esempio: carpaccio di manzo, stracciatella e polvere di olive nere; fesa di tacchino cotta a bassa temperatura con susine e grana; insalatina di quinoa, avocado e salsa al mango.
Cucina. Il regno dello chef Gianluca Wayne Rosano: classe 1979, natali milanesi, origini italoamericane. “Mio padre Antonio Carmelo è siciliano, mentre mia mamma Barbara è di Baltimora”, spiega Gianluca. Che quel Wayne l’ha ereditato con orgoglio dal nonno materno. Mentre l’attrazione culinaria si è fatta strada grazie agli studi all’alberghiero Amerigo Vespucci. In seguito? Gian Wayne ha sentito il vento in poppa e ha preso il largo. Verso il Tartarughino di Porto Rotondo, in Costa Smeralda, e verso la Francia. Per poi lasciarsi conquistare dal Lisa dagli occhi blu di Mario Tessuto, al fianco dello chef sardo Gianni Frau; lavorare con Antonio Sorrentino all’Hotel Poseidon di Positano ed entrare nel gruppo di Giacomo. Seguendo anche l’apertura dell’insegna di Pietrasanta. Ma è stando al fianco di chef peruviani (del calibro di Virgilio Martínez) - in occasione di una mostra al Mudec - che Gianluca s’illumina.
“Mi sono innamorato del Perù e dei suoi prodotti”, dichiara Rosano. Che da Otivm mette in atto una riuscita commistione di colture e culture. Seguendo il Mediterraneo, guardando oltre e contaminando sapientemente le pietanze. Fiere di seguire la filosofia dell’inclusione e dell’integrazione fra Italia, Asia e Sudamerica. Tenendo fede a una linea ben precisa. “Sì, propongo più pesce che carne. E più crudo che cotto”, puntualizza lo chef. Che può contare sul sous-chef Luigi Codispoti, su un cuoco peruviano come Jesús Navarro e su una brigata coesa. “Siamo in nove in cucina. Ma dove vado vado quasi tutti si spostano con me. Si lavora insieme e si fa squadra”, continua Gianluca Wayne.
Dunque, via libera a plateau, coquillage e proposte raw. Ma anche a pesci marinati, speziati, scottati. Sfumature che valgono anche per la carne. Voilà capesante affumicate, zucca, perle di tapioca e dashi. Per assaporare l’aristocratico tepore del mare. Che fa sentire la sua voce pure nella tartare di dentice con guacamole, tagliatelle di seppia, quinoa soffiata e ceviche di peperoncino rocoto; nel tataki di ricciola con spuma di vongole, pomodorini confit e bottarga di muggine; nella tartare di branzino, gamberi di Mazara del Vallo, pere Williams, riso rosso Ermes, stracciatella di bufala e salsa fusion; nel polpo (cotto a bassa temperatura), crumble di chorizo, broccoli in agrodolce e blend di pomodori affumicati; e nel sashimi di di salmone, ceviche e mais cancha. Della serie, acidità, umami e leggera piccantezza a dare verve a vivande delle nuance delicate e al contempo determinate.
E per chi ama la carne? Terrina di foie gras, pan brioche alla cannella e frutti rossi; e sashimi di black angus, umeboshi, foie gras e sesamo nero. La tenerezza e il vigore. La dolcezza e le note fumé. Mente chi adora l’uovo può puntar dritto su quello poché croccante con crema di scorzonera e castagne caramellate.
Ma non mancano le riletture dei grandi cult. Vedi il riso carnaroli (by Il Chicco del Mulino di Aldo Noè, a Zibido San Giacomo) alla milanese con astice “frollato” nel lardo di Colonnata e riduzione di fichi e tosazu (aceto di riso affumicato); gli spaghetti di Gragnano con colatura di ricci e ’nduja; e la cacio e pepe reloaded. Tradotta in ravioli dal ripieno liquido (un’infusione di pecorino romano e pepe) e dal raffinato condimento: gamberi rossi di Mazara del Vallo, lime e bottarga. Non da ultimi, gli ciuffarelli ripieni di rosticciana affumicata, con porcini, mele, burrata e salsa nikkei. A base di soia, zenzero e peperoncino peruviano aji panca essiccato.
Per proseguire con una pescatrice all’acqua pazza davvero “fuori” (schema). Il pesce viene infatti cucinato a bassa temperatura, per poi accogliere zucca, guanciale, funghi enoki e brodetto umami. Intanto, il black cod viene glassato al miso e completato con pack choi; la faraona sussurra a mezcal, porcini alla milanese e mango; il petto d’anatra si circonda di prugne marinate al pisco, cavolfiore e mandorle; e il filetto di black angus abbraccia un divertissement di cavoli e funghi, lasciandosi nappare dalla salsa nikkei. Mentre la preziosa golden ribeye steak - servita con patate rustiche - si orna di una foglia d’oro. Nei calici? I cult dell’enologia italiana e qualche Champagne.
Mescola, mescola Gianluca. Senza porsi confini e barriere. Anche nei dolci: mousse al cioccolato biondo (biscottato e vellutato) Dulcey di Valrhona con arachidi e passion fruit; bon bon al Bahibé con mandorle, nocciole e crumble al caramello; e un dessert total white, ritmato da cocco, yogurt, meringa e coccolato bianco.
Una parete del locale porta scritto: “Vietato Ballare”. Il palese invito a fare esattamente il contrario. Soprattutto quando il sound diviene protagonista.