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Da Cilavegna a Breme, passando per Mortara, Lomello, Rosasco e Robbio. Rurale grand tour in quella landa pavese dove nasce il riso e scorrazzano le oche. Dove cresce la cipolla rossa e spunta l’asparago rosa. E dove lente pascolano le chiocciole. Un ecomuseo a cielo aperto, fuori Milano
Pare un ossimoro. Eppure è così. La Lomellina è una terra d’acqua. Perché convive con l’acqua, si nutre d’acqua, è definita dall’acqua (dei fiumi Po, Sesia e Ticino) e vive in simbiosi con l’acqua. Pur restando se stessa: terra. Fertile, gioiosa e rigogliosa. Pronta a farsi capofila di un progetto a portata internazionale quale Orizzonti Rurali, grazie al Gal Risorsa Lomellina: Gruppo di azione locale - capeggiato dal direttore Luca Sormani - che coinvolge quarantun comuni della Lomellina occidentale, insieme con la Provincia e la Camera di Commercio di Pavia, la Coldiretti, la Confederazione Italiana Agricoltori e l’Unione Agricoltori, una serie di realtà associative dell’artigianato e del commercio, aziende agricole, società di comunicazione, imprese edili e altri soggetti. Tutti uniti nel comune obiettivo della valorizzazione della biodiversità e delle agroenergie di un paesaggio contadino non lontano da Milano. Anzi, di quello che è il vero contado meneghino, ossia quella campagna che fa da continuum col contesto cittadino. Una “piccola Loira” tutta da scoprire, fra rocche e castelli, corti e cascine, sentieri e dossi, risaie e garzaie. Assaporando prodotti a filiera tracciatissima e cortissima. Che nella terra (e nell’acqua) affondano le loro abissali radici.
A Mortara, le terre e le risaie di Cascina Alberona, capitanata da Luigi Ferraris
Nel regno del riso
Era il settembre 1475 quando Galeazzo Maria Sforza scrisse all’oratore del Duca d’Este in Milano, Nicolò de Roberti, promettendo di inviare a Ercole I una dozzina di sacchi di semente di riso proveniente dai possedimenti lomellini. Da allora di acqua ne è passata nelle risaie e ne passa ancora. Creando poetici paesaggi liquidi dalla bellezza struggente. “Noi invece seminiamo all’asciutto, in maggio. E quando la piantina raggiunge gli otto centimetri, in genere a giugno, allaghiamo i campi. Perché l’acqua funge da volano termico. Evitando l’eccessiva escursione fra il giorno e la notte. Il raccolto invece avviene verso settembre-ottobre” racconta Luigi Ferraris: natali a Noale, studi agrari a Castelfranco Veneto e, sul finir degli anni Ottanta, il ritorno in patria, a Mortara, in quella Cascina Alberona dove nacque il padre Giampiero. “Ora abbiamo circa 120 ettari, fra proprietà e affitto. E produciamo il Carnaroli da Carnaroli pavese. Un carnaroli assoluto e purissimo, perché la semente è controllatissima e la sua tracciabilità è certificata CSQA. Lo si riconosce facilmente perché lui ha un baffo rosso”, precisa Luigi, indicando la fulva arista che spunta dal chicco. Luigi, che accanto a Carnaroli, Baldo e S.Andrea può pure apporre l’aggettivo classico, contando sul placet dell’Ente Nazionale Risi; e che partecipa alla filiera del riso Venere (figlio dell’incrocio fra un riso asiatico nero e un italiano) e l’Ermes (dal tono rosso, nato dall’unione fra un Venere e un indica). Non dimenticando il Carnaroli integrale e quello stagionato 24 mesi. “Ma attenzione, a stagionare è il risone. Ossia il riso con la lolla intorno. Risone che poi va sbramato e sbiancato. Ecco, quello maturato due anni assorbe al massimo il condimento, tiene meglio la cottura e rilascia un po’ più di amido”, puntualizza lui. Che sul pack del 24 mesi imprime pure la firma, a suggello di un’altissima qualità. Intanto, il volitivo Ferraris ha messo a punto uno spaccio in loco e pure un dinamico e-shop. Dove trovare persino zuppe e risotti “pronti”. Come quelli col radicchio tardivo di Treviso (a memoria delle origini venete) e con la cipolla rossa di Breme. Altra eccellenza di Lomellina.
In alto, il riso firmato Marta Sempio. In basso, le visionarie realtà di Santa Maria dei Cieli, Cascina Languria e Cascina Bosco Fornasara
Il bianco, il rosa, il rosso e il nero
“Il nostro scopo non era solo quello di riscoprire un’identità storica. Volevamo pure riconsegnare alla modernità un riso dalla forte personalità, valorizzando il territorio dove nasce e cresce”, racconta Giovanni Nipoti - responsabile di produzione dell’azienda agricola Santa Maria dei Cieli, che si estende per duecento ettari fra Lomello e Mede (ed è adiacente alla garzaia di Villa Biscossi, zona umida vocata alla riproduzione della nitticora, della garzetta e dell’airone cinerino) - parlando della varietà Lomello. Una cultivar indigena. Una tipologia iconica, risalente ai primi anni Cinquanta, recuperata e tornata a nuova vita. Per una seconda giovinezza, naturalmente in purezza. Segni particolari? Un chicco grande e perlaceo, ma pure un ciclo vegetativo più breve. Per un riso antico e attualissimo. Così come giovani e moderni sono Marta Sempio e i suoi risi. Prodotti a Cascina Tessera (Valeggio) senza l’uso di concimi e diserbanti. Anzi, arricchendo il suolo con la pratica del sovescio. Nel pieno rispetto dell’ambiente e in piena empatia col fattore Stefano Toscani, il regista delle risaie. Fra gli highlight? Il riso Carnaroli classico biologico e il Ris Rus integrale. Un riso rosso dal gusto aromatico e dal profumo deciso. Ideale in una radiosa “insalata”, insieme a piselli, gamberetti, zucchine marinate e germogli di soia. Come consiglia Riccardo Carnevali, titolare della scuola di cucina by Ars Convivium di Pavia. Intanto, Matteo Rossi, patron di Cascina Languria, a Mede, coltiva il futuro e pure il riso. Su terreni bio certificati da oltre trent’anni. Risultato? Il Rovere e l’Ebano. Non due tipologie di legno, bensì un superbo Carnaroli classico e un riso nero integrale (il cui nome è un acronimo: Early Black Aromatic Novalty), creato grazie agli studi di Massimo Biloni, un esperto di selezione genetica. Un riso precoce (nella sua maturazione) e veloce (in cucina). Che ben si adatta alla terra, e pure al terzo millennio. Senza tradire il rosa Marchetti (varietà introdotta da Domenico Marchetti negli anni Settanta e intitolato alla moglie Rosa): come quello di Cascina Bosco Fornasara, costruita e restaurata secondo i diktat della bioedilizia e guidata - in maniera etica ed ecosostenibile - da Roberto Marinone e dalla moglie Ilena, a Nicorvo. In una perfetta sinergia fra natura e coltura. Pardon, policoltura.
La cipolla rossa di Breme, alias La Dolcissima
L’oro di Dorno e la dolcissima di Breme
Riso. E lo zafferano? Eccolo pure lui. Coltivato a Dorno, luogo d’elezione della zucca bertagnina. “L’idea nacque da un regalo: un vasetto di zafferano in stimmi”, commenta Maria Luisa Padova, che col sodale (e amico d’infanzia) Stefano Strada ha dato vita allo Zafferano della Lomellina, recuperando alcuni terreni incolti, proprio dietro casa. “Sì, nella mia vita ho sempre fatto altro, ma poi sono tornata in Lomellina. Ora contiamo circa centomila bulbi. E poi lo zafferano è un anti depressivo naturale”, dichiara la madame. Orgogliosa del suo oro rosso. E rossa è pure lei: la cipolla di Breme. Tutelata dalla DeCo, considerata un Presidio Slow Food e meglio conosciuta come La Dolcissima. “Qui la si coltiva ancora come una volta. Sudando come una volta. E facendola crescere su un terreno fertilissimo, ricco di sedimenti. Alla confluenza dei fiumi Po e Sesia. Per questo lei è croccantissima, digeribilissima e dolcissima. Tutto il resto è rapa”, precisa ironicamente Franco Berzero, sindaco di Breme. Borgo medievale dove spiccano la Casa della Cipolla e un monumento in ferro battuto dedicato alla cipolla. La cui raccolta (a mano) inizia a giugno. Per poi esser consumata cotta e cruda, in zuppe e frittate, oppure sublimata in agrodolce, nonché tradotta in confetture, composte, mostarde e salse (ottime quelle griffate da Marco Aceti). Qualche curiosità? Il seme della rossa è conservato in ben due banche: la norvegese Svalbard Global Seed Vault; e quella dell’Orto Botanico dell’Università di Pavia. Ma lei, La Dolcissima, venne introdotta nel 906 dai monaci dell’abbazia di Novalesa, rifugiati in terra bremese - grazie alle donazioni del marchese Adalberto d’Ivrea - in seguito all’invasione dei Saraceni. Monaci che fondarono l’abbazia di San Pietro, oggi sede del comune. Ma il chiostro, il refettorio, la dispensa, la ghiacciaia e la Cucina dei Frati (costruita dai monaci olivetani nel XVI secolo) sono visitabili tutti i giorni.
Nell'azienda agricola avicola L'oca di Sant'Albino, Davide Gallina si prende cura di tutta la filiera
Mortara e il giro dell’oca
Nomen omen. Con upgrade. Davide Gallina lo aveva scritto nel destino: allevare oche. “La nostra è un’azienda di famiglia. Partita inizialmente con uno spirito domestico, per poi passare a un livello professionale. Ora abbiamo il controllo dell’intera filiera. Incluso un laboratorio di trasformazione. Partiamo dai pulcini. Loro passano una ventina di giorni al chiuso, sulla lolla di riso. Poi escono e crescono, nutrendosi di granaglie. Abbiamo all’incirca tremila oche, tutte libere. Allo stato brado. Ma soffrono il caldo. Per questo preferiscono l’ombra. E a gennaio fanno il bagno. Sono animali rustici. Non hanno bisogno di particolari cure. E alcune, le più belle, le faccio esibire alle sagre”, racconta soddisfatto Davide. Che, nella sua azienda agricola avicola L’oca si Sant’Albino - a Casoni di Sant’Albino, frazione di Mortara - alleva principalmente la bianca pesante francese (che raggiunge gli otto chili) e la romagnola (che arriva a quattro chili). A cui si aggiungono anatre, faraone, polli e galline. Con tutta la compilation di uova. Naturalmente in vendita. Nello spaccio locale e a Milano: al mercato agricolo coperto di Porta Romana by Campagna Amica. Punta di diamante? Il salame d’oca: quello cotto, a marchio igp e tutelato dal consorzio. “Nel mio metto il 33% di carne d’oca, il 33% di parti magre di maiale e il 33% di guanciale. E ancora, sale, pepe e una concia mista”, puntualizza l’allevatore. In regola col disciplinare. “Salame insaccato nella pelle stessa dell’oca. Quella del collo, della pancia e della schiena. È buono così, freddo, ma anche messo una decina di minuti in acqua bollente”. E visto che dell’oca non si butta via niente, ecco il prosciuttino, la bresaola, il cacciatorino, la mortadella di fegato, il pâté di fegato, il petto (stagionato e sott’olio), i ciccioli, la pasta di salame, le salamelle d’oca sotto grasso (una variante del salam d’la duja) e persino i ravioli fatti in casa. “Anche il ragò d’oca con le verze fa parte della nostra tradizione. Inoltre, a Natale, prepariamo il salame crudo ecumenico. Totalmente a base di oca”. Ecumenico perché può essere consumato dai fedeli delle tre religioni monoteiste: cattolica, musulmana ed ebraica. Del resto, furono proprio le comunità ebraiche giunte in agro lomellino (tra il ’400 e il ’500) a dare un notevole impulso agli allevamenti di questo nobile animale di corte.
Azienda agrituristica, riserva di caccia e oasi incontaminata. A Mortara, La Liberata sorprende per la sua grande bellezza
L’oca in verticale
Salame ecumenico da acquistare anche nel cuore di Mortara. Nell’Antica Macelleria Rossi: anno di nascita 1945 e un presente animato con entusiasmo da Edoardo Rossi. Che propone anche lui una vera verticale d’oca, spaziando da sua maestà il salame alla mortadella di fegato, dalla salsiccia ai ciccioli, dal marbré al pâté, non trascurando uno straordinario speck. Perché dell’oca si utilizza tutto. Anche il grasso, per friggere e cucinare. “E noi abbiamo anche dato ai biscotti la forma dell’oca. E li abbiamo battezzati Le Giulive. Sono frollini a base di uova, zucchero e farina di riso, ottenuta dal nostro Carnaroli”, spiega Stefania Sedino, la grande dame de La Liberata, mortarese azienda agrituristica venatoria che ribadisce fiera il suo claim: “Per chi va a caccia di qualità”. Una riserva di caccia dunque, popolata da lepri, fagiani, starne, beccacce e germani. Ma soprattutto un’oasi verde e incontaminata, che si distende per 250 ettari tutt’intorno al bosco vincolato della Barza e Liberata, sancta santorum degli ontani neri. Il tutto completato da una casa di caccia e da un lago: alimentato da acque sorgive, abitato da trote e storioni e incorniciato da salici piangenti e frutteti rigogliosi. Che Stefania e mamma Raffaella trasformano in confetture: di susine, di ribes rosso, di pesche, di ciliegie, di amarene, di fichi, di fragole e rabarbaro, di pere e zafferano. Per una vera collection di delizie, che includono pure salse di verdure e miele.
“… in seguito ci sorride bella Coelavenia quasi veniente dal cielo, gradita nell'aspetto, ma ancora più gradita per i costumi degli abitanti e per l’urbanitate”. E ancora: “Celebres in hac re sunt in primis Coelavenii”. Così scrive, parlando di Cilavegna e dei suoi asparagi, lo storico pavese Bernardo Sacco nel De italicorum rerum varietate et elegantia
Nella Tenuta Molino Taverna di Cilavegna si coltivano i preziosi asparagi rosa
Cilavegna e la regalità dell’asparago
Sono tenerissimi. “Ma hanno la forza di sollevare le zolle di terra”, ribadisce con la schiena curva Paolo Banfi, pescando col calzasparago l’ortaggio principe di Cilavegna. “Io e mia moglie Margherita acquistammo questa azienda negli anni Novanta e dal 2000 sono entrati a farne parte pure i nostri figli Costanza, Giuditta e Pietro”, continua Banfi senior, parlando con orgoglio della Tenuta Molino Taverna. Che può contare sui pioppi, sul mais, sul riso Carnaroli e sugli asparagi rosa. Che in realtà sono bianchi. Con la punta pink. “Crescono benissimo in questo terreno sabbioso e resiliente. Ma necessitano di molta cura. La loro produzione è infatti sartoriale. Nutriamo il suolo con letame e cornunghia. Poi, creando dei filari, mettiamo a dimora le zampe. Sono loro il complesso radicale. Le copriamo con la terra, sollevandola grazie a una baulatrice e tenendola pulita dalle malerbe. La raccolta va da metà aprile a metà maggio. Hanno un portamento eretto, verticale. Perché il turione punta in alto, cercando il sole”, continua Pietro. Che fa parte dell’Apac, Associazione Produttori Asparagi Cilavegnesi, il cui presidente è proprio il padre Paolo. Che raccogliendo esclama: “La terra va accarezzata e ringraziata”. Un asparago tutelato dalla DeCo, delicato e prelibato, da consumare fresco e da conservare in frigorifero per non più di 4-5 giorni. “Ma attenzione, gli asparagi non si mangiano, si intingono nel condimento e si succhiano”, tiene a puntualizzare il produttore Cipriano Rosselli. “Ovvio, vale la stessa regola dei Fonzies: se non ti lecchi le dita godi solo a metà”, chiosa Pietro. Fiero di proporre nell’agriturismo di famiglia l’aspargià alla cilavegnese. Preparata in cucina dalla sorella Giuditta, scegliendo gli asparagi più grossi, cuocendoli a vapore e posizionandoli in una terrina. Insieme a tuorli di gallina crudi, burro nocciola e nevicata di grana padano. Aspargià che chef Giuditta concentra persino in un raviolo homemade. Da non perdere? Anche il risotto con gli asparagi. Quelli più fini e sottili. In abbinamento: il Metodo Classico dell’Oltrepò Pavese Vergomberra e il Riesling by Bruno Verdi, maison di Canneto Pavese, capeggiata dal figlio Paolo.
Le chiocciole da pascolo naturale della cilavegnese maison 2M, guidata da Marta Torti
@Chiocciole al pascolo
Asparagi che Giuditta Banfi presenta anche in agrodolce. In combo con le chiocciole: quelle di Maura Torti, al timone dell’azienda 2M, sempre a Cilavegna. “Si chiama così perché la fondammo io e mio fratello Mario”, svela lei: capelli rosa ed energia da vendere. “Qui sono la titolare. Ma anche la tuttofare. All’occorrenza pure elettricista. Pratico l’elicicoltura, allevando la elix aspersa maxima, tipica delle coste del Mediterraneo. Una chiocciola da ristorazione. Perché la chiocciola deve dare reddito, non può restare nell’ambito dell’hobbistica”. E lei, Maura, in tutto ciò che fa ci mette passione, dedizione, professionalità e pure un tocco di genialità. Seguendo il metodo francese e aggiungendoci del suo. Per assicurare un prodotto fresco tutto l’anno, senza alterare il ciclo biologico delle chiocciole. “Che hanno bisogno di tanto riposo”. Del resto, lei le conosce bene. Accudendole dalla riproduzione alla deposizione delle uova (in serra), dalla schiusa (in piccoli contenitori) sino al trasloco negli appositi parchi. Dove loro dimorano nei ripari-mangiatoie. Pascolando e nutrendosi di piante orticole e farina di cereali. Per tre mesi, tre mesi e mezzo. Per poi venir raccolte, asciugate, spurgate, sistemate in cassette di acciaio e - grazie una ventilazione forzata d’aria fresca - indotte al letargo. Così da esser confezionate vive e integre al momento necessario. Senza stress alcuno. Concedendo un sapore piacevole, per nulla acre ed erbaceo. Dove trovarle? Al banco pescheria dell’Esselunga, ma pure al ristorante. Alla Tenuta Molino Taverna, Giuditta propone persino un raffinato pâté di fegato di chiocciole, presentato sopra una dolce e friabile offella di Parona.
All'Agriturismo Pescarolo di Robbio è possibile assaggiare il Vino dei Celti, ma anche i tanti prodotti della dinamica realtà lomellina
A Robbio rinasce il Vino dei Celti
Lomellina. Terra d’acqua. E di vino. In piccole quantità, certo. Ma il vino c’è eccome. Basta approdare all’Agriturismo Pescarolo - Cascina Molino Miradolo di Redobium, l’odierna Robbio, per scoprire le radici viticole di questa landa lombarda addossata al Piemonte. “Questo è un virtuoso esempio di archeologia dei sapori. È stato infatti ricostruito un antico paesaggio lomellino. Piantando la vite su un dosso eolico, grazie alla tecnica dell’arbustum gallicum. Così chiamata perché adottata dai Levi liguri, i Celti di Lomellina”, racconta il sommelier Ais Carlo Aguzzi. Tornando indietro di ventitré secoli e descrivendo gli attualissimi 1.680 metri quadrati in cui le viti di vespolina e moradella vengono sostenute da un tutore vivo e vegeto: un acero campestre. Viti madri del Vino dei Celti: che riposa in botte per poi esser trasferito in vasi in ceramica dalla foggia di trottola. Come usavano anticamente. “È un vino rubino, dagli accenni speziati. Rammenta quasi un Porto. E si sorseggia dopo averlo versato in candide ciotoline”, commenta Aguzzi. Fulvio Pescarolo ne va fierissimo, confezionandolo in una scatola in legno - di olmo o pioppo - colma di paglia di triticum monococcum. Giusto per rendere onore all’ancestralità. Più giovane, dinamico e contemporaneo è invece il Vino Lomellino di Robbio, summa di vespolina, moradella e croatina. Leggermente frizzante e dal profumo di viola. Ideale con i piatti dell’agriturismo. “Qui abbiamo pioppi, oche, riso, ulivi, alberi da frutto, ortaggi e asparagi. Crescono anche nel bosco della Friscà. Ottimi nella frittata con le uova d’oca. Ma proponiamo pure i salami d’oca e i peperoni con la bagna cauda. Dopotutto il Piemonte è a due passi”, narra Fulvio.
Il Torrione Ghibellino di Rosasco e il Battistero di San Giovanni ad Fontes di Lomello
Lomello, Rosasco e antiche vestigia
Intanto, i Levi tornano. Del resto, il termine Lomellina proviene da Lomello, l’antica Laumellum. E prima ancora da Laevum Mellum. Lomello, cittadina nel cuore della Lomellina, sulla destra del torrente Agogna. Perché visitarla? Per il complesso religioso formato dalla Basilica di Santa Maria Maggiore, exemplum del primo periodo del Romanico lombardo; e per il mirabile Battistero di San Giovanni ad Fontes, gioiello longobardo rivestito in mattoni, a pianta ortogonale e orgoglioso di celare i resti dell’originaria fonte battesimale. “Noi organizziamo visite su misura, con tanto di pranzo”, dice Flavio Bonadio, che con la moglie Silvia sta alla regia dell’Antica Dimora San Michele, ottocentesco palazzo tradotto in hotel e ristorante, con corredo di cortile, cantina e sala del pozzo. Profondo più di otto metri. Un luogo suggestivo e coerente col genius loci: dove far la doccia con uno shower gel a base di estratti organici di riso e dove a colazione può capitare di assaggiare i biscotti di farina riso Lomello. Certo, quello coltivato da Santa Maria dei Cieli. E per toccare il cielo con un dito? Basta salire sul Torrione Ghibellino di Rosasco. Dominando la bellezza.