Positive living. Positive eating. Ma il mantra vale anche viceversa. Perché quel che conta è il pensiero positivo, ispirato alla nipponica filosofia kaizen, che celebra il buon cambiamento e il miglioramento continuo. Sono i valori dell’ottimismo, del benessere e di un sano e saggio nutrimento per mente e corpo i capisaldi sui quali si fonda una vivace realtà ristorativa come wagamama. Nata nel 1992 a Londra - nel quartiere di Bloomsbury - e ormai presente, con oltre duecento insegne, in venticinque Paesi. E l’Italia non fa certo eccezione. Con ben tre locali: all’Oriocenter, a Milano Malpensa (area imbarchi) e nella centralissima via San Pietro all’Orto. A due passi dalla Madonnina.
Uno spazio, quello vicino a Piazza Duomo, grande. Grandissimo. Che conta più di duecento coperti, distribuiti su due piani dai toni luminosi, dai colori caldi e dal rassicurante senso di avvolgenza. Sì, perché nonostante l’ambiente sia enorme, non manca un non so che di familiare. Che fa del ristorante in un luogo democratico. In cui il sopra dialoga con il sotto, la cucina osserva la sala, angoli più riservati intrecciano tavoli e panche in legno dall’anima conviviale, e i sorrisi e la cortesia del personale vibrano di una spiccata professionalità.
Uno spazio fluido, alimentato dai principi dell’inclusione, della contaminazione e dell’apertura al “diverso”. A partire dalla proposta culinaria. Che, andando “dalla scodella all’anima”, si ispira al Giappone per poi lasciarsi conquistare da tutta l’Asia. Sposando le spezie, l’umami, la piccantezza e la delicatezza. Per pietanze panasiatiche capaci di incontrare tutti i palati. Senza esclusione alcuna. Vivande vegetariane e vegane incluse. Come il kare burosu ramen, summa di tofu fritto, coperto di shichimi (un misto di spezie orientali) e funghi grigliati, su un letto di udon tuffati in un brodo vegetale al curry. Complici soncino, carote, chilli e coriandolo.
Un’insegna in costante movimento e mutamento wagamama. Rock sin nel nome, che fra i molti significati vanta pure quello di “ragazzo indisciplinato”. O meglio ancora: volitivo e propositivo. Cha ama andare un po’ fuori dalle regole e dagli schemi. Tant’è che, accanto a una variegata proposta beverage all’insegna di sake, tè, centrifughe di frutta e verdura e cocktail dal timbro multiculturale (vedi il “wagapolitan”, a base di vodka, tè alle prugne, curd di prugne e lime fresco), ora fanno capolino pure i vini. Anzi, un’accurata e unconventional wine list. Per un positive drinking. “La nostra è una proposta giovane e smart che punta dritto al benessere e allo star bene. Una cucina che utilizza il più possibile ingredienti naturali e poco elaborati. E la nuova carta dei vini doveva essere coerente con questi concetti”, precisa Maurizio Raviolo, managing director di wagmama Italia (Brian Johnston è invece l’international managing director).
“Ho scelto sette vini. Pronti a cadere in piedi su tutti gli abbinamenti. Capaci di accordarsi al meglio con le sfumature agrodolci, piccanti, umami o acide dei piatti panasiatici presenti in carta. Un’operazione non certo semplice. All’inizio mi ero infatti diretto verso etichette un po’ più difficili. Imprevedibili. Ma poi ho pensato ai grandi numeri di wagamama. Quei piccoli produttori non avrebbero potuto rispondere a tal domanda. Il rischio era quello di finire presto le scorte. E poi per il personale sarebbe stato troppo complicato raccontare vini così fuori dal coro”, spiega Francesco Pagani: sommelier e wine consultant dalla sapiente ars oratoria. Così? “Così ho selezionato sette vini concilianti. Ma non certo scontati. Vini in grado di far apprezzare questo tipo di cucina a tutti. Tanto a un commensale di Milano quanto a uno di Mosca, di New York o di Los Angeles. Vini che non coprono mai i piatti. Anzi, ne esaltano le peculiarità”, continua mister Pagani. Che snocciola sette nettari in abbinata a sette portate iconiche. Per un pairing da prendere ad exemplum. Per poi tradurlo in libertà. Volendo, anche nel format al calice.
Voilà il “Primario”, un Valdobbiadene Prosecco Superiore extra dry firmato Ruge. Nome dietro il quale si celano i bros Andrea e Ruggero Ruggeri, che fanno parte dell’associazione Vignaioli Indipendenti Trevigiani e che fanno pure tesoro del territorio. Rispettandolo, custodendolo e regalandolo un Prosecco fine e morbido, non aggressivo ma neppure banale. Figlio del metodo charmat. Bollicine colte ma anche simpatiche. Ideali con quelli che da wagamama si chiamano lollipop prawn kushiyaki. Traduzione: spiedini di gamberi grigliati, che vengono prima marinati in lemongrass, lime e chilli. Per poi essere presentati con lime caramellato.
E dopo il Prosecco? Un Franciacorta controcorrente: “SoloUva”, versione brut. A produrlo? Giovanni Arcari e Nico Danesi, che tengono le redini della maison Arcari + Danesi, a Coccoaglio, sulla cima del Montorfano, la collina emblema del territorio franciacortino. Un vino che non è solo un vino, ma pure un credo, una religione, un metodo: il “solouva”, ossia uva e null’altro che uva a piena maturità. Dunque? Nessuna aggiunta di zucchero di canna (per innescare la seconda fermentazione e per il dosaggio post sboccatura), bensì il mosto (atto a docg) dell’uva stessa. Intrinsecamente ricco di zuccheri. Uva su uva. Cento per cento chardonnay. In sinergia con un piatto pop come i bao buns al barbecue coreano di manzo e cipolla rossa. Con corredo di maionese e coriandolo. “Mi sono preso tutto il rischio di accompagnare questo Franciacorta alternativo con una pietanza a base di carne e salse. Ma si sa, quando la questione si fa grassa le bollicine stanno a perfezione. E poi la sofficità dei bao necessitava di agilità e tensione”, puntualizza Pagani.
Con i gyoza, ravioli al vapore farciti con saporiti sfilacci di maiale, meglio invece un “rosato da piscina”, come lo definisce Francesco in accezione iper positiva. Per la facile, esuberante ed empatica beva. Il suo nome? "Grace". Impalpabile come la cipria di Grace Kelly, sensuale come la canzone di Jeff Buckley e immenso come la Grand Central di Manhattan. Di cui fa l’acronimo. Perché è a lei che si ispira: la grande stazione della Grande Mela, in parte realizzata con il marmo di Botticino. Zona da dove provengono le uve (schiava, barbera, marzemino e sangiovese) di questo vino, tuffate in una vigna vecchia di ottant’anni, a piede franco. L’ancien régime per una bottiglia iper contemporanea. Sempre targata Arcari + Danesi.
E con un corroborante brodo caldo e fumante? Un vino scattante e di razza. “Un vino che è pura aristocrazia. Figlio di uve cresciute vicino a una collina baciata da Dio: la Bricco Boschis, a Castiglione Falletto. Vocata a un superbo Barolo”, racconta il sommelier. Presentando uno chardonnay. Certo. Uno Chardonnay di Langa, elegante, teso, armonioso, intenso. Nato fra i cru di Bricco Boschis e Vignolo e predestinato all’invecchiamento. Un bianco sublime, siglato Cavallotto, ideale in pairing con una pietanza come i ramen, preziosi di coscia d’anatra disossata, agrumata salsa ponzu, noodles, verdure, chilli, scalogno, valeriana e coriandolo. Per un brodo piacevolmente spicy.
Garganega, pura garganega - coltivata secondo credo biologico (in vecchie vigne a 400 metri di altitudine) - invece per il Soave Classico “Castelcerino” di Filippo Filippi. Un cru, da terroir vulcanico. Un vino che si muove tra sentori di frutta e note di pietra focaia. Da cucire a meraviglia su uno dei teppanyaki di wagamama: i pad thai con pollo, gamberi, noodles di riso, salsa amai, germogli, porri, uovo, cipollotto, chilli e cipolla rossa. Il tutto guarnito con scalogno fritto, erbe fresche e lime. Un vero e proprio comfort food.
Così come rilassante è il tradizionale donburi, proposto anche in declinazione “omakase”, ovvero un po’ speciale. Nella maxi ciotola: fettine di tenera coscia d’anatra in salsa piccante teriyaki, carote, taccole, patate dolci e cipolla rossa. Sotto: riso giapponese. Sopra: uovo fritto croccante, cetriolo affettato e cipollotto. Con contorno di kimchi, il tipico cavolo coreano fermentato. Nel calice? Un rosso. Un sicilianissimo Frappato siglato Cos, maison di Vittoria capitanata da Giambattista Cilia e Giusto Occhipinti. Padri di questo vino che come dice Pagani: “Si porta via l’anima più speziata della Sicilia”. Lieviti indigeni, tannino morbido e massima raffinatezza per un’etichetta dall’assolata anima mediterranea.
Ultima sfida: la piccantezza all’ennesima potenza. Ma Francesco punta dritto su un vino che ce la fa benissimo a reggerla: l’Ortrugo “Lubigo”, un sur lie by Croci, cantina piacentina di Castell’Arquato. “Al naso pare dolce. Invece in bocca è secco come una lama”. Tagliente e potente, tanto da affrontare a testa alta una portata infuocata, facente parte della sezione curry: i firecracker di gamberi, con piccante mélange di taccole, peperoni verdi e rossi, cipolle, chilli, shichimi e semi di sesamo. A mitigare l’incendio: riso al vapore e lime fresco. A dare un senso al tutto: questo Ortrugo dall’etichetta bianca e azzurra. A chiosa? Un freschissimo gelato allo yuzu o un sorbetto al passion fruit, guava rosa e menta.
In gallery, foto della location di via San Pietro all’Orto e altri piatti