“Il mio ingrediente prediletto è il burro. Il san pietro, per esempio, lo nappiamo col burro. Per poi completarlo con crema di carote, mandorle, vadouvan e salsa alla diavola”, spiega orgoglioso Roberto Stefani, tracciando le coordinate di un piatto che è un po’ il ritratto del suo messaggio culinario: al ristorante Tancredi di Sirmione. Creatura gourmand au bord du lac, nata dal volere di un pokerissimo di soci: Arnaldo Damiani, Amedeo Baroni, Antonio Minervini, Alberto Scheli e Leonardo Cirillo. Tutti provenienti da differenti parti d’Italia (dalla Valtellina alla Puglia, passando per le lande friulane e bergamasche) e approdati - molti anni fa - al ristorante Risorgimento. Sempre in quella bella Sirmio cantata da Gaio Valerio Catullo nel Carme 31. Poi? I cinque rilevano il Risorgimento - che diviene persino società-progetto di ristorazione sul territorio -, acquisiscono il Tancredi (nel 2009) e ne trasformano il look. Con mister Damiani posizionato ai fornelli. Infine, cambio di rotta (nel febbraio 2019): Arnaldo va alla regia della sala, con il suo gran savoir-faire di maître e sommelier; mentre in cucina arriva Roberto. “Siamo entrati in una nuova era e in un’altra logica. E noto che la clientela è contenta”, spiega felice Arnaldo.
Roberto: millesimo 1982 e bresciano di Barghe. Roberto: sensibilissimo, calmo, attento, rigoroso, meticoloso. Ma anche audace e coraggioso. Nel proseguire dritto per la sua strada, nell’uscire dagli schemi e nel proporre la sua personalissima visione del Mediterraneo: lungo la più iconica penisola del Lago di Garda. Un mare indissolubilmente ancorato alla terra. E contaminato dalla terra (e pure da elementi che stanno sottoterra). Un mare tiepido, quieto, delicato. Azzurro. Sì, tinto di un azzurro-verde. Lontanissimo dai toni esuberanti, energici, procaci, veraci e abissalmente blu tipici del sud. Quello cantato da Stefani è un Mare Nostrum dal registro diverso, più introverso, riservato, raffinato. Temperato, come il clima gardesano. Angelicato, come una promenade sulla Côte d’Azur.
I piatti di Roberto godono di una luce bianca e celeste. Non accecante e prorompente come quella di certe giornate assolate del meridione, bensì rotonda, sinuosa, armoniosa. E il burro fa la sua parte. Quello di malga. Anzi, delle due malghe (Maniva, a 1.500 metri, e Dasdana a quota 1.809) di Amerigo Salvadori. Uno dei produttori del bagòss, pregiatissimo formaggio Presidio Slow Food di Bagolino, nella Valle del Caffaro. “Lo utilizzo anche per le linguine. Complici pepe e crudo di gamberi”, precisa Roberto. Ricordando la sua versione autoctona della cacio e pepe, con immancabile tuffo in mare. Mentre è un burro di Normandia leggermente salato (la Francia torna) a corredare la serie dei pani serviti à la table: pagnottella con Petra 1 e Petra 8610 (semola rimacinata di grano duro); grissini con Petra 1 e Petra 5; e pane ai cereali. “Lo preparo sempre con Petra 1, ma inserisco nell’impasto Bonsemì. Per finire con una spolverata di Cerealè”, puntualizza la chef pâtissier Elisa Modica.
Tanto, il burro di malga torna. A impreziosire la patata viola che accompagna un regale king crab dalla spumeggiante aria di Champagne, con corredo di caviale d’aringa affumicata. Torna il burro. “Reso acido, rigorosamente alla maniera di Gualtiero Marchesi”, ribatte Roberto. Che ha passato un po’ di tempo col maestro, all’Albereta di Erbusco, e che manteca a meraviglia uno straordinario riso Acquerello (invecchiato sette anni) con astice bretone, zenzero e salsa al pepe rosa. Dolcezza, acidità, piccantezza. Le note identitarie dello chef. Il leitmotiv. Il refrain della degustazione-emozione. Sin dall’ouverture: cannellone di mango, ricotta di bufala e jus di carcadè; salmone all’aneto con panna acida aromatizzata al Gin Mare (un gin iper mediterraneo, distribuito in Italy da Compagnia dei Caraibi); e tataki di tonno rosso siciliano alla nizzarda con salsa di soia e passion fruit.
Mescola Roberto. Mediterraneo e spiagge esotiche, Francia e Giappone, erbe aromatiche e spezie. Senza barriere. Senza cliché. Mixa. Memorie, viaggi in Thailandia, hic et nunc. Shakera. Tecnica e sensibilità. “Lo incontrai alla Lepre di Desenzano. E percepii immediatamente il suo talento”, confessa Arnaldo. Mentre versa un equilibratissimo Champagne Brut Delamotte (55% chardonnay, 35% pinot noir e 10% meunier), maison di Le Mesnil-sur-Oger (nella Côte des Blancs) dal 1760. Continuando col superbo Chardonnay Mâcon-Verzé 2018 dei Domaines Leflaive di Puligny-Montrachet (nella Côte d’Or); col lucente Riesling d’Alsazia Herrenweg de Turckheim 2014, nonché con l’intenso e serico Gewürtraminer Grand Cru Goldert 2013, entrambi del Domaine Zind-Umbrecht. Mineralità e aristocratica potenza. “Sono innamorato dei vini francesi”, ammette lui. Cuore e coerenza. Ça va sans dire.
Intanto, le altre delizie raggiungono i candidi deschi. Purissimi ed essenziali, di lino e posate Mepra vestiti. A due passi dall’acqua, se nella bella stagione si decide di pranzare o cenare nel dehors-garden, sospeso fra cielo e lago, quasi pieds dans l’eau. Oppure nel salotto interno, tuffati nella trasparenza di grandi vetrate che creano un continuum fra dentro e fuori. Voilà tartare di garronese veneta e aria d’ostrica, presentata nella perlacea valva del sapido mollusco; triglia di scoglio farcita con mousse di scampi, avvolta da pasta kataifi e accompagnata da chutney di pesca, crema di peperone del pequillo e salsa thai; linguine di Gragnano con vongole veraci, basilico, pinoli e salicornia; e ravioli - preparati homemade con semola di grano duro e Petra 7220, la GranPasta - ripieni di liquido zabaione all’uovo, con latte di capra, gamberi rossi di Sicilia, tartufo nero di Norcia e spinacini. Per metter testa e palato sotto la terra e sotto l’acqua (tra l’altro si chiama così il tasting menu, proposto a 69 euro).
E ancora, sogliola di Dover, confettura di pomodoro, zucchine e salsa suprema; rombo arrosto, asparagi, mortadella e ristretto alla cacciatora; trancio di pesce spada affumicato al fieno con crema di melanzane, burrata e salsa spagnola. “Considero Antonio Guida il mio maestro”, dichiara Roberto. Che dal 2003 al 2007 ha lavorato al fianco di Antonio al Pellicano di Porto Ercole. Assorbendone gli insegnamenti. Per poi seguire, sempre con lui, l’apertura del Mandarin Oriental Bodrum. Guarda caso, penisola definita da Omero “Paradiso dell’eterno azzurro”. I fusilloni con piccione, crema di radici e datteri confermano.
Stefani allarga lo sguardo. Per poi prendere il cannocchiale e far focus sul genius loci. Grazie anche al saper fare dalla pastry Elisa. E di tutta l’équipe de cuisine, che include pure gli chef de partie Pasquale De Mizio e Salvatore Russo. Dolce, dunque. Gli Ori del Garda: semifreddo e gelée al cedro (di Limone sul Garda), gelato al cappero di Gargnano, polvere di capperi, zabaione all’extravergine di oliva casaliva by Frantoio Montecroce e dacquise alla mandorla di Toritto (unica eccezione che conferma la regola). La forma del puzzle? “Ci piaceva l’idea di rappresentare, anche esteticamente, l’incastro di diversi tasselli locali”, spiega Roberto. Mentre Elisa propone un altro dessert, pronto a inanellare mousse al cioccolato Guanaja di Valrhona, cremoso al pepe di timut e gelée al passion fruit. Infine, piccola pasticceria col caffè (Gimoka di Andalo Valtellino, Sondrio): gelatina all’ananas baby, tartufino al cioccolato e caffè, cantuccio alle mandorle.
Un'ode al Mediterraneo. Un inno sussurrato, mai urlato. Profondo e penetrante, come la voce del “basso” Tancredi Pasero, il cantante lirico che possedeva una villa, proprio di fronte al ristorante. Che da lui mutua il nome. Così come l’insenatura antistante, battezzata dal pescatori la Baia del Tancredi.
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