“Suonna, ca sò suonne d’oro”, si legge sulla grande parete verticale all’ingresso del locale. Una scritta al neon, rosa flou. «Sono le parole che mi ripeteva sempre mio padre Angelo: sogna, che saranno sogni d’oro», spiega Roberto Di Pinto, chef e patron del Sine. Insegna aperta da pochi mesi in viale Umbria, accanto al Parco Vittorio Formentano. Quello con la Palazzina Liberty e il vibrante Monumento ai Marinai d’Italia dello scultore Francesco Somaini. Moderna vittoria alata stilizzata.
E anche Roberto ha messo le ali e spiccato il volo. Aprendo un luogo tutto suo. «Qui c’è tutto: quello che sono, sono stato e sarò. Perché questa è la mia casa», ribadisce soddisfatto il cuoco napoletano, classe 1982. Lui che iniziò dal basso, come garzone, in una delle più iconiche pasticcerie partenopee: Scaturchio. Per poi puntare in alto, entrando nel gruppo Starwood, facendo tappa al Nobu, atterrando a Parigi, approdando al Bulgari di Milano e inanellando uno stage da Gennaro Esposito, alla Torre del Saracino di Vico Equense. Il risultato? Una visione ampia e allargata della cucina. In cui si mescolano tecnica e passione, memoria e audacia, lievità e profondità, estro e puntiglio, Mediterraneo e Asia.
Una cucina senza barriere, cliché, confini materiali e immaginari. Ma anche senza fronzoli e orpelli. «Sine: senza alla latina», precisa Martina Ventura, moglie di Roberto e al suo fianco in sala. Perché? Perché lo diceva anche Giorgio Gaber: “La felicità non dipende dal superfluo”, com’è riportato all’incipit della carta. Una cucina vera, autentica, solida e concreta quella di Di Pinto. Luminosa e brillante. Densa di colore, piena di sapore. Cristallina e riconoscibile. Del resto, il suo è un ristorante gastrocratico, in cui il potere va “democraticamente” all’ingrediente. Protagonista assoluto di piatti circolari e totali. In perfetto equilibrio fra sapido, acido, dolce e amaro. «Amo il fuoco e amo l’amaro. Così ci sto lavorando. Se ben bilanciato è piacevolissimo», precisa lo chef. Che gioca col bruciato e col tostato, col brûlée e con l’arrostito. Per ottenere nuance amaricanti, pronte a regalare una lieve ombreggiatura a pietanze raggianti e solari.
Quindi? Consommé di verdure bruciate per cominciare. Umami e vertiginoso. Servito in tazza, quasi fosse un tè all’inglese. «Il brodo lo cambio tutte le settimane. È il mio benvenuto. Il mio modo di dire: adesso ti siedi e ti rilassi. Persino il gesto di prendere la tazza con le mani vuole comunicare calore e rassicurazione», spiega Roberto. Che accompagna il brodo tiepido con bignè craquelin stracolmi di ragù napoletano. Non dimenticando mini tacos alla parmigiana di melanzane. E tracciando immediatamente la rotta culinaria. Che dal Vesuvio si muove tra Francia, Oltreoceano e Oriente.
Tanto Napoli torna: pizzetta (anche al nero di seppia) fritta con zucchine trombetta (in crema e alla mandolina), palamita marinata in un dressing di limone di Sorrento e arancia tarocco, pomodoro confit e filetti di mandorle. Da mangiare a portafoglio, come tradizione insegna. Un goloso antipasto primaverile, upgrade della più invernale pizzetta con friarielli, crudo di tonno e agrumi. Ma si sa, le stagioni cambiano. E lo chef ci sta parecchio attento.
Mare e campagna nelle capesante - leggermente bruciacchiate col cannello -, brunoise di salame napoletano, limone candito e peperone arrostito. Per una ventata mediterranea che, sorprendentemente, conduce sino in Spagna e a un vago ricordo di chorizo.
Corre dritto sul set di un cult tarantiniano come Pulp Fiction invece la tartare brûlée di petto e coscia d’anatra. Pronta a danzare, come Uma Thurman e John Travolta sulle note di You can never can tell di Chuck Berry, fra rape rosse, melagrana, chips di quinoa e ostrica fake. Sì, perché in realtà di tratta di una iodata e salmastra salsa di cozze.
E poi i primi. Pasta ripiena in primis. Bottoni di lingua e salsa verde, vongole e rucola selvatica. Ma pure cappelletti al datterino liquido, salsa di burrata, pomodorini confit e variazione di pomodori freschi: gialli, rossi e verdi. Pronti a dire: l’estate da arrivando. In un ciclone che esplode in bocca.
Mentre la mescafrancesca mescola, in un armonioso guazzabuglio, pasta mista, astice e patate. Miseria e nobiltà. La scarpetta? È assicurata dal pane cafone: messo a punto, su ricetta dello chef, da Jeanmarc Vezzoli del panificio Fratelli Longoni di Carate Brianza.
E il riso? Voilà, fiero di fare Milano-Napoli, andata e ritorno. Un risotto giallo allo zafferano, cotto in un brodo vegetale, con aggiunta di fumetto di frutti di mare (realizzato con acqua di mare). Al top: vongole, cozze, polpi e seppie.
Un risotto in black e white è invece quello che elegge a protagonisti latte di mandorla, caviale oscietra by Ars Italica, scorza di lime, mandorle sbriciolate e inchiostro di ortaggi. Dal tono noir. «L’idea m’è venuta pensando alle verdure che metto nel brodo: sedano, carota, cipolla, cetriolo, zucchina. Mi sono chiesto: e se le recuperassi facendole tostare? E così ho fatto. Per poi macinarle, ottenendo una sorta di caffè. Che ho messo nella moka. Infine, ho fatto restringere il tutto», racconta il cuoco. Che dà vita a un risotto dalle sfumature terragne, perfettamente contrastate dalla dolcezza del latte di mandorla.
Stop. Reset. Grazie a un boccone-esplosione di limone: pralina di cioccolato bianco, cocktail di Champagne e limoncello e polpa di ricci di mare. Per proseguire con la triglia. Anzi, un filetto di triglia, scottato in padella e corredato di ceci (interi e passati), maruzzielli (lumachine marine) ed estrazione di carota ad allagare l’ittica pietanza. Mentre il diaframma stupisce per l’estrema tenerezza, associato alla croccantezza di una cipolla caramellata e alla lieve piccantezza di un raviolo di guanciale al wasabi napoletano. Ottenuto con le cime dei friarielli. Intorno? Salsa ai tre peperoni. Anche se non mancano coniglio all’ischitana e ombrina all’acqua pazza. Facenti parte di una comfort zone della carta, che va sotto il nome di “Sine Tempore”. Come evergreen è la speciale ostrica al pisco sour. «La creai anni fa in occasione dell’evento “Epicurea”, dedicandola a Virgilio Martínez del Central di Lima. Successe poi che Virgilio la inserì nel suo menu. E così l’ho voluta tenere anch’io», svela orgoglioso Di Pinto.
Foglia di shiso come predessert. Ripiena di gelato allo yogurt e frutti rossi e confettura di datterini. Rinfrescante. Ideale anticamera dei dolci. Zuppa di latte: infantile e adulto compendio di panna cotta al latte di mucca guernsey (un latte prezioso di sali minerali, vitamine, antiossidanti e betacarotene), plumcake, spugna e schiuma di latte e gelato al Plasmon. Mentre la mela annurca (in gelato e in fettine essiccate) sposa un crumble all’anice e un gelato al gianduia; e il limone esplode nel cedro. Scavato e bruciato in forno, sino a divenire un cratere. Uno scrigno vulcanico fiero di accogliere gelato alla polpa di cedro, crumble di limone, meringa al lime, yuzu curd, gel al limoncello, olio extravergine di tonda iblea e basilico. In chiosa, sfogliatelle, nocciole pralinate e popcorn caramellati. Come in una gioiosa sagra di paese.
Un ristorante elegante ma senza sofismi il Sine. Ordinato, geometrico, rigoroso, ma anche smart, ironico e informale. Ospitato in quella che un tempo era un’officina di moto. Un diner napolitan graffiti per certi versi. Ritmato da pavimenti in resina e tappeti, legno e specchi, luci al neon e lampade perpendicolari a tavoli, che qua e là adottano il pregiato marmo calacacatta. Mentre alle pareti campeggiano tratti astratti. «Questi li ho dipinti io col cucchiaio», dichiara Di Pinto, indicando le tele ai muri. Che ritraggono il risotto e il diaframma presenti in carta.
Maxi anche la cucina, dove prende posto persino un bancone-table dello chef. Pensato per far assaporare un menu ad hoc, creato live a mano libera. D’altro canto il “Menu Gastrocratico” inanella un manipolo di portate a 45 euro; e il percorso “Sine Confini”, contempla otto vivande a 75 euro. E ogni martedì? A disposizione un tavolo per gli under 25, con menu su misura a 35 euro.
E se presto comparirà una saletta-salotto privé, decisamente nascosto è il tavolo in cantina (riservabile su prenotazione). La wine list? Un viaggio fra Italia e Oltralpe. Con inchino alla Campania. Qualche consiglio? La Falanghina del Sannio della linea Janare by La Guardiense, cantina sociale beneventana; nonché il rubino “Terracalda” delle Cantine Babbo, da uve piedirosso dei Campi Flegrei.
Il ristorante è aperto il lunedì a cena e dal martedì al sabato, a pranzo (dalle 12.30 alle 15) e a cena (dalle 19.30 alle 23.30). Conditio sine qua non: avere appetito.
Foto di Modestino Tozzi