Punto primo. Non pensare che il mare si esprima solo a voce alta, nei toni accesi del bianco e dell’azzurro. Il mare può anche parlare sussurrando, incarnando le nuance del sabbia e del grigio perla. Punto secondo. Non credere che la Sicilia verace si incarni esclusivamente nella forma tradizionale delle arancine e delle panelle, della pasta con le sarde e degli anelletti al forno, della cassata e della caponata. Che può serenamente abbandonare il ruolo di “contorno” per suonare un assolo nel piatto, sotto forma di amuse bouche. Come accade a Il Moro di Monza. Ristorante dove la radiosità insulare assume sfumature sofisticate. Talvolta tenui e delicate, talaltra più accentuate, ardite, audaci e acute. Non dimenticando naturali e piacevoli contaminazioni con la Brianza e la Lombardia.
“Desideriamo che la nostra mano venga letta all’interno di un pensiero preciso, capace di rispettare, di esaltare ma anche di interpretare la materia prima”, spiega Vincenzo Butticè. Il più grande di tre fratelli. Tutti impegnati nella guida dell’insegna gourmet, che vede pure Salvatore in cucina e Antonella in sala. Tre bros uniti e determinati più che mai a proseguire lungo la strada dell’eccellenza. Loro che vengono da Raffadali, in provincia di Agrigento - vicino alla Valle dei Templi - da una famiglia di agricoltori. Loro che le mani nella terra le hanno messe sin da piccoli. Loro che i prodotti nostrani li amano da sempre. Loro che dieci anni fa ebbero il coraggio di rilevare il ristorante monzese per farne un’oasi di classe, attrice (recentemente) di una “rinascita” stilistica. Il risultato? È un palcoscenico dalle luci soft, dalle confortevoli sedute e dalle pareti perlacee e incipriate, impreziosite qua e là dall’esposizione (temporanea) di alcune opere di Omar Galliani. E non manca certo il tavolo conviviale. Posto al centro, per 4-6 persone o per due coppie. “Ora vorrei vestirlo con le tovagliette di lino fatte a mano dalla mamma”, svela Antonella.
Un salotto chic, signorile e minimale. Come le pietanze. Che dell’opulenza barocca colgono l’essenza. Per restituirla in portate colte. Ostriche al naturale, il loro estratto, germogli d’aglio dolce, fiori eduli e “nutella” raffadalese. In pratica: una crema bianca e vellutata messa a punto con le mandorle coltivate nell’Agrigentino. Per uno spettacolare abbraccio fra terra e mare. Sancito pure nel polpo con le carote. L’uno cotto a bassa temperatura e poi arrostito. Le altre proposte al naturale, in crema e in estratto. Complici gel di menta e meringhe al limone. Poi c’è il potage. Superbo e setoso: di zucchine trombetta - “ma è ottimo anche con la cipolla di Giarratana” precisa Vincenzo - e corredo di capperi di Salina fritti, capesante e pancetta di Marco d’Oggiono (prosciuttificio del Lecchese). Per un incontro ravvicinato e riuscitissimo fra Trinacria e Brianza. E il riso? Come potrebbe mancare? Rigorosamente carnaroli della Riserva San Massimo (di Gropello Cairoli, nel Pavese): con vongole, timo e limone, oppure con parmigiano 36 mesi, ricci di mare, rafano, zenzero, spuma allo zafferano e petali di rosa.
Ma i paccheri (rigati) rispondono, orgogliosi più che mai. In versione 2.0, pronti a mettersi in piedi e a dialogare liberamente col commensale. Conditi con pistacchi (tostati e in crema) e gambero rosso (nudo e crudo) di Mazara del Vallo. Un primo piatto energico e deciso, un must del Moro, in grado di evolversi non tradendo le sue radici. Così come il pesce spada parla siciliano, sposando crema di tinniruma (foglie e germogli tenerissimi delle zucchine), caponatina bianca, cipolla rossa di Tropea, chips di grano Senatore Cappelli e pomodorino fermentato. Mentre il vitello sanato regala la sensazione del classico bollito piemontese-lombardo: cotto a bassa temperatura, scottato in plancia e completato da una giardiniera di verdure in agrodolce, una gelatina di carne e una crema parmentier. Al posto del purè. Cui fa seguito il dessert, elogio a fragola e mandorla. Uno degli ingredienti principe del ristorante. “Però mi piacerebbe anche valorizzare la giuggiola e l’aglio rosso di Nubia”, dichiara Vincenzo. Attratto pure dalle culinarie influenze africane. Perché no? Il continente di couscous e tajine non è poi così distante dalla Sicilia.
Intanto la brava Antonella (affiancata in sala da Beatrice Pasina) serve e racconta la sua terra natia al calice. Voilà il fresco, sapido e aromatico “Vigna Làgano" by Mandrarossa, un fiano in purezza del Menfishire. E ancora, il “Calìo” (che significa “caldo”), vino rubino, vivace e moderno della Cooperativa Vinicola Agrituristica Canicattì. Che sigla pure il brioso “Satàri”, summa fragrante e seducente di grillo e chardonnay; il “Delicio”, rosato floreal-fruttato, ottenuto da nero d’Avola e nerello marsalese; e il “Sciuscia”, magnetico e sensuale, in grado di concentrare nei grappoli appassiti di nero d’Avola il vento che soffia sui filari. Sicilian breeze.