È lì. Concentrato e attento. Intento a montare il piatto. Il più è fatto. Tutto è stato pensato, studiato, definito, tratteggiato. Almeno nella testa. Manca solo l’ultimo sforzo. La composizione finale. Quella che giunge dritta al commensale. Ma è fondamentale che sia perfetta. “Lui dà il meglio di sé quando il ristorante è pieno e ci sono cinquanta ospiti. Quando ha diciotto comande da gestire contemporaneamente”, confessa Irene Agliardi, compagnia di vita e d’avventura dello chef Alberto Bertani. Capitani coraggiosi di QB Duepuntozero, sul lungolago di Salò. Anzi, proprio sul luccicante Porto Sirena della cittadina gardesana.
“Adoro l’adrenalina del ristorante. Amo il non sapere dove mettere le mani. Fare mille cose, tutte nello stesso istante”, spiega Alberto. Che invece sa esattamente come e dove sintonizzare mani e cervello. Et voilà, il fotografo visionario Nicolò Brunelli - salodiano pure lui - non perde occasione per immortalarlo. Nell’attimo stesso in cui costruisce un piatto. Nell’atto di un concepimento che si replicherà molte volte ancora. Nel gesto ripetitivo, ma non scontato, della creazione. Momento conclusivo di una vera e propria gestazione. Che inizia dall’idea, per proseguire con l’elaborazione, la discussione insieme alla brigata, la ricerca della materia prima e la realizzazione. “Per esempio, io il pesce non lo scelgo, ma lo preparo. E devo conoscerlo bene”, ribadisce Alberto. Ritratto chino sul piatto. Mentre “pesca” una cozza. Che nel Garda non c’è. Ma che importa. “Cerco di dare visibilità al lago e a questa zona. Ma non voglio limitarmi a queste rive. Voglio anche deviare. Guardare nuovi lidi. Concedermi uno spettro più ampio”, continua Bertani.
Un cuoco da ammirare in bianco e nero. In una serie di scatti puri, puliti, istintivi ed essenziali. Tradotti in stampe fotografiche ecosostenibili: realizzate in fine art a pigmenti naturali su carta fatta a mano (misto cotone) firmata Toscolano 1381, una delle più antiche botteghe artigiane del settore. Di cui socio fondatore e vice presidente è proprio Nicolò Brunelli. L’occhio, l’artista, il deus ex machina di una mostra che, oltre a Bertani, inanella un copioso numero di chef del territorio gardesano, di quello bresciano e di quello italiano: Backstage - La vita dietro a un piatto. Di scena fino al 19 gennaio al Ma.Co.f - Centro della Fotografia Italiana della Leonessa. Un’esposizione innovativa e dinamica, che traccia il racconto della cucina italiana contemporanea, facendo focus sulla genesi della pietanza. E dando luce al tempo dell’attesa, della ricerca, della riflessione e della sperimentazione.
“Se un piatto non finisce di piacermi non lo inserisco in carta. E se lo inserisco è perché sono sicuro di quel piatto. È perché sono certo che anche se ci fosse confusione mi riuscirebbe a perfezione”, precisa Bertani. Classe 1979. Originario di Gargnano. Testardo, caparbio e ostinato quanto serve. Anzi, quanto basta: QB. Come si usa scrivere nelle ricette. E come si leggeva sull’insegna del primo locale, aperto a Campoverde, frazione di Salò, nel 2009. Sempre insieme a Irene (nativa di Gavardo). Che Alberto conosce mentre, giovanissimo, ricopre il ruolo di executive chef all’Hotel Bellerive della cittadina salodiana. Dopo aver frequentato l’alberghiero Caterina de’ Medici di Gardone Riviera e dopo aver gironzolato un po’ fra il mare di Sardegna, il Lago di Garda e le Dolomiti. Giusto per aprire gli orizzonti.
QB Duepuntozero nasce invece nel 2014, come upgrade del precedente (e più rustico) QB. “Arrivando in riva al lago temevo di essere costretto a dover omologare la mia cucina. Invece ho tenuto duro e sono andato dritto per la mia strada”, confessa Alberto. Che porta avanti una filosofia culinaria fatta di concretezza, di piedi per terra, di molte erbe e di qualche tuffo in acqua. Come accade con la tartare di coregone “spiaggiato”, con limone confit, gel di Chiaretto Valtènesi, sabbia alla salvia e capperi di Gargano essiccati. “Li raccoglie mio papà Elio”, puntualizza lo chef. Fiero di dar visibilità ai “boccioli” della cittadina lacustre. E di riproporre una pietanza in origine pensata per una competizione in barca. Pronta anche a solcare il mare: polpo arrosto con sedano rapa, semi di zucca tostati e olio al pepe di Sichuan; e tonno alla puttanesca. Ossia, tartare di tonno, sabbia alle olive, crema di datterini confit lievemente piccante, acciughe del Cantabrico e capperi essiccati. Che spesso tornano.
E se fra gli antipasti sfilano la battuta di fassona piemontese, crumble ai porcini, Tombea (pregiato formaggio vaccino a pasta cruda) e scaglie di tuorlo d’uovo (marinato e grattugiato); nonché la scaloppa di foie gras con pan brioche al ginepro e chutney di mela alla fava tonka, talvolta il cuoco non dimentica soluzioni più pop. Frattaglie incluse. Vedi le animelle al burro e salvia con amaricante gel di Campari e carciofo. Prima cotto a bassa temperatura e poi rosolato in padella. Nel calice? Ideale l’elegante “Metodo Classico” targato Le Morette, maison di Peschiera del Garda: un blanc de blancs fresco e minerale, figlio delle uve turbiana e chardonnay e di almeno 36 mesi di affinamento.
Quinto quarto sul lago. Perché no? E in carta spicca una portata d’eccezione. Una di quelle da non perdere. Golosa e curiosa ai massimi livelli: la lingua 2.0. Traduzione: hamburger di lingua di vitello (impreziosito da patate, parmigiano e santoreggia di montagna), peperoni dolci, salsa verde e “maionese” al brodo di lingua. “La lingua la cuocio per 24 ore a 85°C, con un po’ di verdure. Il brodo poi lo filtro e lo faccio ridurre. Affinché si concentri al massimo”, racconta lo chef. Mentre Irene, solare e serena padrona di casa, sorveglia la sala - in sinergia con Deborah Ferretti - e la sommelier Andrea Lanzi consiglia l’abbinamento. Con il bianco e brillante “Riné” di Cantrina, cantina di Bedizzole che esercita il suo “libero esercizio di stile” anche su questa summa di riesling, chardonnay e incrocio Manzoni.
Colore. E calore. Due caratteristiche peculiari della cucina di Alberto. Innamorato di Irene e del loro cane Horus (un amstaff). Ma anche appassionato di verdure e di piante officinali e spontanee. Che lui concentra in una crema smeraldina di patate e tarassaco. Verde. Verdissima. Complice un’escalation di erbe utilizzate a crudo, provenienti da Graziano Perugini, alias L’erborista selvatico: levistico, rafano, silene, aneto, castalda, pimpinella, acetosella, fiori di borragine, malva, calendula e tagete. A chiosa: un filo d’olio extravergine del Garda Il Cavaliere, azienda agricola locale. E per chi preferisse l’arancione? Crema di zucca, capesante dorate, streusel all'amaretto e parmigiano e guanciale di Amatrice croccante.
Ma fra i primi occhieggiano pure gli gnocchetti di patate allo stracotto di coda di bue, bagòss e ristretto al Groppello; e i ravioli homemade alla barbabietola. Dall’accentuato tono pink e dal ripieno determinato, cui concorre un erborinato di capra della Valle Sabbia. Per condimento: burro, salvia e pistacchio, in crema e in versione tostato e salato. Nel bicchiere, un ottimo chardonnay di Borgogna quale “Le Petit Têtu” del domaine Jean-Marie Berrux. Ma attenzione: nel menu degustazione non mancano i maccheroni trafilati al torchio con sarde di lago e pomodoro datterino confit su passatina di patate al finocchietto.
E per chi ama le paste lunghe, ecco le tagliatelle aromatizzate alla salvia, fonduta al taleggio e tartufo nero; oppure gli spaghetti Monograno Felicetti con crema di vongole e briciole di pane al limone. Spaghetti che Alberto, qualche tempo fa, proponeva pure in noir: arricchiti da mandorle, bottarga di Trota Oro, aglio nero di Voghiera e polvere di lime. Un piatto grintoso e vigoroso, valorizzato nel sodalizio con l’armonioso “Carat" (uvaggio di friulano, malvasia e ribolla gialla) della maison goriziana Bressan.
Tanto, per far la scarpetta il pane c’è. Chic pure lui: pane pugliese style con semola e Petra 9, la “tuttograno” di Molino Quaglia; ciabattine messe a punto con le farine Petra 1 e Petra 9; filoncini alle olive nere; focaccine alle cipolle (sempre con Petra 1); roselline sfogliate al burro con grana e polvere di pomodoro; e cracker alla curcuma.
Una cucina che sa viaggiare per lago, per terra e per mare. La cui brezza sfiora ancora il Porto Sirena. Grazie alla coda di rospo corredata di peperone crusco, olive, salsa all'aglio dolce e spinacini. E grazie anche al raffinato baccalà mantecato, crema di lattuga e yogurt al ravanello. Mentre il luccio va ad arricchire uno dei tasting menu: presentato in concia, con polentina e polvere di olive nere.
Ma Alberto sa anche volare in alto. E in carta inserisce un piccione straordinario: fumé e in due cotture. Coscia e ala cucinate a bassa temperatura e poi rosolate; petto affumicato e cotto al rosa. A completare: scalogni glassati, zucca e salsa al whisky torbato Laphroaig. Perfetto in tandem con l’aristocratico rosso “50 & 50”, per metà merlot di Avignonesi e per metà sangiovese delle Capannelle.
In alternativa? Pluma di pata negra, topinambur e liquirizia. Ma anche bavetta di black angus, mousseline di patate e tartufo nero. Per andare oltre confine. Rendendo omaggio a sapori profondamente terragni.
Colore, colore, colore pure nella macedonia. Ops, nel minestrone 2.0. Zibaldone di ortaggi (dalle carote al sedano rapa, passando per i finocchi), cotti nello sciroppo a bassa temperatura e poi aromatizzati con fava tonka, cardamomo, chiodi di garofano e pepe rosa. Il tutto suggellato da un gelato al passion fruit e zafferano. Naturalmente di Pozzolengo. Non tradendo la torta di rose con salsa alla vaniglia. Un vero cult del ristorante. Che vanta persino il limoncino “della casa”. “Mio padre Elio, oltre ai capperi, adora gli agrumi”, ricorda Alberto. Attratto anche dal dolce mondo. “In tre giorni a Parigi non ho fatto altro che visitare pasticcerie”, rivela il cuoco. Che intanto serve mini delizie di fine pasto: ossa da mordere con cacao e nocciole, cantucci alle mandorle, meringhe, baci di dama, eburnei cioccolatini e panna cotta al cardamomo con coulis di frutti rossi.
Non resta che dare un’ultima occhiata alla carta delle vivande. Anzi, no. Meglio toccarla. Per notare la sua egregia fattura. Proprio a firma della bottega artigiana Toscolano 1381. Tutto torna. Mentre il font utilizzato è il “DIN”. Iconico, leggero e longevo. Acronimo di Deutsches Institut für Normung, ideato in Germania nel 1923, eppur contemporaneo. Di classe. Perfettamente coerente con la salottiera insegna vista lago di Irene e Alberto. Che, a mano libera, scrive il suo credo.
Foto di Nicolò Brunelli