Sono la colonna vertebrale dell’America Meridionale. Perché ne caratterizzano la struttura, determinandone natura e cultura. Anche culinaria. Del resto loro, le Ande, sono lunghe 7.500 chilometri, vantano un alto profilo - oscillante fra i tre e i cinquemila metri di quota - e attraversano otto stati, andando dal Golfo di Paria a Capo Horn. La cordigliera per antonomasia. Una catena che unisce, non divide. Lo sa bene il patron del Don Juanito, Diego Muzzi, che al variegato regno andino ha voluto dedicare il suo locale. Nato a Milano nel 2003 come semplice tavola calda; cresciuto come fratello minore del Don Juan e ora divenuto adulto. Della serie, cordone ombelicale reciso e via che si cammina con le proprie (e solide) gambe. Grazie alla mano dello chef peruviano Alex Huayanay (originario della zona montuosa di Áncash) e al savoir faire di Diego.
“Sono nato a Mendoza, la città argentina del vino”, dice orgoglioso mentre versa nel calice un bianco di carattere come il Torrontés della Colección di Michel Torino, maison franco-italiana fondata nel 1892 nella Calcaquí Valley. “A 16 anni, poi, ho iniziato a lavorare come panettiere e da lì mi sono innamorato della cucina”, continua mister Muzzi: classe ’76 e dal 2002 in Italy. Non senza qualche capatina in Francia e in Inghilterra, alla corte di Gordon Ramsay. Insomma, un capitano di lungo corso. Che oggi timona con maestria il suo ristorante. Tutto legno, colori caldi e respiro contemporaneo.
Sul tavolo, come benvenuto, già le tracce delle Ande: platano verde fritto ecuadoriano e mais cancha peruviano. Il consiglio è poi quello di optare per la degustazione andina di terra o di mare. Dipende se si vuol fare un viaggio all’insegna della meat culture sudamericana, oppure surfare sull’Oceano Pacifico. In questo caso sull’ardesia giungono la quinoa ai gamberi (omaggio alla Bolivia); l’empanada ai frutti di mare (inchino al nord del Cile); la jalea de mariscos (fritto di pesce in onore del Pacifico) e la causa peruana con patate e maionese di gamberi. Complici due salsine: una green alla menta negra e una violetta al mais nero. Per un ritratto andino tutto da assaporare.
E che fa subito presagire il food mood del ristorante. Pronto a proporre un puzzle fatto di pietanze pescate dai diversi Paesi attraversati dalla latina cordigliera. Tutte pensate con cura e rilette in leggerezza. In carta, anche il ceviche di ricciola marinata con lime, mais bianco e patata dolce; la lubiana a la baiana, ossia filetto di branzino alla griglia in salsa di cocco, yuca e riso; e il rombo con platano maturo e patata americana cotti in foglie di platano. Non certo trascurando la carne: bife de chorizo, ricordando l’argentina; ciervo patagonico e cordero (agnello) andino a la parilla; chancho, maialino da latte disossato e cotto a bassa temperatura; pollo al ladrillo (al mattone con timo e limone) e feijoada carioca, con picanha, fagioli neri, riso bianco, farofa e arancia. Per un tasting meat addicted. Perfetto in abbinata a un vino tinto quale il Saurus, griffato Familia Schroeder e figlio del cabernet sauvignon della Patagonia argentina.
E per dessert? Tres leches: dolce tipico latino che elegge il latte in triplice versione: al vapore, condensato e sotto forma di panna fresca. Ma ottimi sono pure il panqueque goloso, crêpe calda ripiena di dulce de leche e gelato alla crema, nonché il Don Pedro, gelato di dulce de leche con whisky e mandorle. A chiosa, distillato a tema: un luminoso e cristallino pisco acholado. Ultimo consiglio. Non uscire senza prima d’esser passati dal bagno: i lavandini sono secchielli in latta, come quelli del latte. Così anche il semplice lavarsi le mani diviene esperienza.