Cos’hanno in comune? Nulla. Eppur si piacciono. Questione di empatia. Sarà perché affondano le radici nella medesima terra campana. Sarà perché sono esuberanti e solari. Sarà perché si completano a vicenda. Sarà perché l’una trova nell’altra quel quid mancante per essere più se stessa di quel che già è. Sarà perché pizza e Falanghina sono rock. Fatto sta che il sodalizio si è rivelato vincente. E ha dato ragione alla lungimiranza di una realtà attiva e propositiva quale il Sannio Dop, ossia il Consorzio di Tutela Vini del Sannio. Che, in tandem con il Gambero Rosso, ha messo in piedi un’iniziativa inedita e intrigante: Pizza & Falanghina Tour, iter in sei tappe che ha messo a tu per tu l’icona italiana con un vino gioioso e scattante, figlio del fertile terroir beneventano.
“Lei, la falanghina, è la regina delle uve. Poliedrica ed eclettica com’è. Pronta a regalare vini dalla buona acidità e dalla grande freschezza. Un’uva perfetta per essere tradotta in vini fermi e passiti. Ma ideale anche per essere spumantizzata, seguendo il metodo charmat o quello classico”, dichiara Carmine Coletta, vicepresidente del consorzio - capitanato da Libero Rillo - nonché presidente della Cantina di Solopaca. Una cave che da sola vanta seicento soci viticoltori. Mentre sono diecimila gli ettari vitati nell’enologico distretto sannita, valorizzato da un consorzio che celebra il ventesimo anniversario proprio in questo 2019. Un’ottima annata. Che ha visto persino una trionfale incoronazione: quella del Sannio Falanghina a Città Europea del Vino. A conferma di un “vigneto” opimo e di un vino vessillo, pronto a farsi portavoce di un’area dalla spiccata identità.
Falanghina versatile e volitiva. Falanghina fiera d’aver incontrato le pizze contemporanee di Pier Daniele Seu (da Seu Pizza Illuminati, a Roma); Andrea Godi (da 400 Gradi di Lecce); Francesco e Salvatore Salvo (nell’omonima insegna di Napoli); Gino Sorbillo (da Lievito Madre al Duomo); Renato Bosco (nell’headquarter di San Martino Buon Albergo); e Lorenzo Sirabella (al Dry Milano di via Solferino). Novembrina e ultima tappa del tour partito la scorsa estate. “Sono orgoglioso di poter abbinare le mie pizze con un vino proveniente dalla mia terra, la Campania”, dice Lorenzo: classe 1993, mamma napoletana, papà ischitano e un’illuminazione professionale al Faro di Roma. Per poi andare a “bottega” da Enzo Coccia, fra le mura partenopee della Pizzaria La Notizia. Uno, che a soli 26 anni, ha già inanellato i “Tre Spicchi” nella guida alle Pizzerie d’Italia del Gambero Rosso. Non facendosi mancare un palmarès d’eccezione, grazie ai titoli di “Giovane Pizzaiolo dell’anno” secondo i 50 Top Pizza e “Miglior Pizza Chef Emergente 2019”, in occasione del capitolino Festival della Gastronomia.
Un giovane appassionato e caparbio, serio e concentrato Sirabella. Che da più di un anno manda avanti a gonfie vele il Dry di via Solferino. Insegna che si avvale della supervisione dello chef stellato Andrea Berton e della direzione generale di Giovanni Biaggini, e che conta pure su un fratello (non gemello) in via Vittorio Veneto, dove al forno e agli impasti sta invece Timur Isayev. “Tutto ciò che faccio risponde sempre a un pensiero. Tutto nasce da un ricordo o da un’esperienza. Oppure vuole rendere omaggio a un territorio, a una tradizione, a un prodotto tipico”, continua Lorenzo. Che mixa infanzia e maturità, qua e là, passato e presente. Proponendo una collection di pizze dalle diverse texture. Partendo sempre da una biga, rispettando il tempo e giocando col fuoco. Del forno a legna. Non dimenticando il buon calore di quello elettrico.
Voilà il cubotto, monolite sofficissimo e arioso. Frutto di un impasto in cui entra Petra 3, la farina di tipo 1 targata Molino Quaglia. E frutto pure di 24 ore di lievitazione e maturazione, di una prima cottura al vapore e di un passaggio nel forno elettrico. Sopra: stracciatella, tartare di gambero rosso, polvere di olive e lime. “È la prima volta che il cubotto lo propongo così. È il suo ufficiale debutto in società”, precisa Sirabella, che esalta la parte agrumata e citrina della Falanghina sannita in versione ferma grazie a una delizia dalla nuance marina. Falanghina, che in brillante e scattante declinazione spumante, sposa invece la focaccia al vitello tonnato. Alla base: un impasto - prezioso della farina Unica di Petra - lasciato lievitare per ben 72 ore. Nel segno del massima digeribilità. “La focaccia col vitello tonnato qui è un cult, dal tempo di Simone Lombardi. L’ho voluta lasciare e non la toglierò mai dalla carta, per rispetto di ciò che il Dry è stato e di quello che sarà”. Indubbiamente un locale (e un format) che ha cambiato la visione della pizza. Liberandola dal giogo della frettolosità e convertendola alla fede nella colta mixology.
E l’autunno? Mica lo dimentica Lorenzo. E fa parlare la spumeggiante Falanghina del Sannio con una pizza umami addicted: funghi pleurotus arrostiti (con timo, aglio e prezzemolo), crema di zucca (ottenuta aggiungendo solo brodo vegetale, cipolla rossa e olio extravergine), pancetta affumicata di suino nero casertano e fonduta di taleggio. “La mia è una napoletana al 90%. Perché l’impasto è indiretto, perché conta su 48 ore di lievitazione e perché la cuocio un pochino di più dei canonici 45-50 secondi. Ottengo così delle peculiarità che mi piacciono tanto”, puntualizza Sirabella. Che prepara anche la pizza con la cassoeula, in un palese inchino al genius loci meneghino. “È una pizza nata ad ottobre dello scorso anno. Quando pensai di omaggiare la Lombardia con un piatto a lei caro come la cassoeula”, continua Lorenzo. Che sulla pronuncia deve ancora lavorare, mentre sulla resa finale ha già raggiunto l’optimum: verza (saltata in padella con aglio, olio e peperoncino), luganega, cipolla rossa, grana padano, riduzione di vino rosso e fiordilatte del casertano Caseificio Il Casolare. “Da loro prendo anche la ricotta e la mozzarella di bufala”, dice il pizzaiolo, fiero delle sue origini campane.
E con la Falanghina del Sannio in declinazione aurea e passita? Una focaccia dolce, caramellizzata e farcita con una morbida ganache al cioccolato fondente. A corredo: una crema lenta al latte e vaniglia. “L’idea mi è venuta pensando ai racconti di mamma e papà. Quando erano piccoli, per loro il cioccolato era un lusso. Lo mangiavano sì e no una, due volte all’anno. Mettendo la tavoletta in mezzo al pane e inzuppandola nel latte. Da lì la mia creazione”, racconta il giovane chef. Che condensa la memoria in un gesto: quello di intingere la focaccia croccante nella crema eburnea.
Pizze delicate e più determinate, marine e profondamente terrene. Ma tutte capaci di incontrare la multiforme e multitasking Falanghina. Ricordando che “La Cassoeula” e la focaccia vitello tonnato oriented si possono ritrovare nella play list di via Solferino. A cui si aggiungono altre pizze signature - come quella con ventricina, broccoli, fiordilatte, crema di broccoli e grana padano - e una serie di focacce, anche al crudo dolce d’Osvaldo, esclusivo prosciutto prodotto a Cormòns. Non trascurando la possibilità di ordinare una serie di pizze “semplici”, da arricchire con un’ampia scelta di ingredienti “on the side”: dalle verdure di stagione alla buzzonaglia di tonno del Mediterraneo, dai capperi di Pantelleria alla guacamole.
Salsa green che torna. Nella mini carta #aftermidnight. “Mi sono accorto che molti giovani entrano sul tardi per bere un buon cocktail. Ma anche per stuzzicare qualcosa. E allora ho studiato una piccola proposta ad hoc per la tarda serata”, puntualizza Sirabella. Che, nella fascia che va da mezzanotte all’una, fa scattare l’operazione spuntino. Nella carta in taglia small: chips di polenta (passate in forno e poi fritte), corredate di guacamole (avocado, peperoncino, lime, coriandolo e cipollotto); cubotti serviti con un tris di farce (caprino, tapenade di olive, capperi e acciughe, e guacamole); toast con burro aromatizzato alla senape e origano, Asiago mezzano e prosciutto cotto alla brace; focaccia al prosciutto crudo e stracciatella, e al vitello tonnato; nonché uno speciale tiramisù. “L’impasto è quello del cubotto, ma aggiungo un po’ di cacao. Poi lo cuocio al vapore e lo glasso con cioccolato e caffè. Per servirlo in una coppetta di vetro, complici crema al mascarpone, grué di cacao e polvere di caffè”, spiega il pizzaiolo, descrivendo la sua “pizza dessert”.
Pizze e focacce da accompagnare anche ai drink, griffati dal bar manager Federico Volpe. “La mia ispirazione nasce dalla volontà di favorire una maggiore interazione con il cocktail e di avvicinare il pubblico a un’esperienza che assomiglia sempre più a una degustazione consapevole, capace di raccontare e valorizzare ogni singolo ingrediente”, spiega Volpe. Per drink esperienziali e essenziali, in grado di stimolare i sensi e di dialogare apertamente con la pizza. “Soprattutto quelli Made in Dry sono studiati per pasteggiare, per accompagnare e completare il cibo. Eleggendo già nella preparazione alcuni elementi tipici della cucina”, ribadisce Sirabella. Facendo riferimento ai signature identificati con un numero (e non come un nome). Puntando così dritto alla loro anima più vera. In perfetta coerenza con l’insegna Dry, che significa secco, asciutto, ridotto all’osso. Quasi nudo, come ben si nota persino osservando gli arredi dello spazio, progettato dallo studio Vudafieri Saverino Partners. Lavorando su uno sfondo grezzo e materico, arricchito da pezzi opachi e luccicanti, vintage e contemporanei.
Dunque: “001”, summa di Mixturae (distillato umbro dalle sfumature di rosa damascena, verbena odorosa e pesca bianca), St. Germain (liquore francese a base di fiori di sambuco), succo di insalata iceberg, miele lasciato in infusione con l’aromatica nepetella, succo acetato di basilico e chutney di pompelmo rosa.
E ancora “003”: vodka Ketel One, composta di barbabietola e aloe vera, limone, zucchero e Champagne rosé. Un twist sul “French 75”, che comunque compare in lista, fra gli “Everyday drinking”, ossia i grandi classici del Dry. Insieme al “Dry Martini 2.0”. Che si sporca. Condensando tre versioni in una: classica (cui concorrono gin e vermouth dry), “Dirty Martini” e “Gibson”. La flûte viene infatti spennellata: da un lato, con un brodo gelificato di olive e con polvere di olive; dall’altro, con una soluzione pickle (acqua, zucchero e aceto di mele) e polvere di cipolla rossa di Tropea.
Continuando con lo “004”, compendio di organic mezcal Vida (by Del Maguey), umeshu (prugna giapponese), citronette di peperone e ceviche di guanabana. L’asprigno frutto tropicale viene infatti cotto a bassa temperatura con lime e kiwi.
E pure lo “007” ha la licenza di incontrale la pizza. Messo a punto con tequila Espolòn Blanco, mango arrostito, cordiale di pompelmo e rose, lime, zucchero e Cynar. A metà strada fra un “Margarita” e un “Paloma”.
Mentre lo “008” balla il twist su un “Amaretto Sour”, inanellando scotch whisky Johnnie Walker Black Label, Disaronno e Falernum, un liquore dolce, creato a fine Ottocento, prodotto dall’infusione di succo di lime con sciroppo di canna da zucchero, mandorle e chiodi di garofano. Completano la ricetta l’agrumato Dry Curaçao, pompelmo giallo, succo di limone e meringhe. Per ottenere la schiuma.
E gli “On the wall”? Sono i drink storici, ancora tatuati su un muro del locale. Come il “Ramos Gin Fizz”. Da sorseggiare in modalità classic (con gin Tanquery Ten, limone, lime, acqua di fiori d’arancio, albume, zucchero e crema di latte), oppure reloaded, con una morbida pasta di meringa. Caramellata live.
Last but not the least, ecco un gin sartoriale, tagliato su misura per i Dry milanesi. Il suo nome è “Elixir”, un London dry gin di lunga vita, perché contiene 19 botaniche di cui nove dalle accentuate proprietà antiossidanti. Come il sumac (rossa bacca di un arbusto selvatico iraniano), foglie di ulivo, polpa di oliva, lemongrass e aneto. Un gin limited edition, realizzato da Cillario & Marazzi Spirits Co. in collaborazione con Gianluca Perrelli. Da bere in purezza o in un lussuoso “Gin Tonic”.