«Ho sempre pensato alla crusca come cibo per galline. E invece no. Luca mi ha insegnato quanto possa esser utile nelle fermentazioni», dice Pino Cuttaia, il bistellato patron de La Madia di Licata, citando Pezzetta, il pizzaiolo dell’Osteria di Birra di Borgo, l’insegna capitolina del birrificio di Borgorose.
C’è davvero sempre da imparare. Soprattutto quando a incrociare le esperienze sono un grande chef avviato alla materia culinaria nel ruolo di pizzaiolo, e un pizzaiolo che cominciò proprio come chef. «O meglio, sono cresciuto con nonno Goffredo, che aveva un ristorante-pizzeria a Grottaferrata. Per farmi star tranquillo mi metteva in mano la pallina dell’impasto. Poi però ho fatto l’alberghiero a Fiumicino e ho inanellato una serie di esperienze in cucina. Anche al fianco di mio padre Giustino, all’osteria Il Bersagliere, a Colonna», racconta il giovane Pezzetta. Classe 1989 e natali in quel di Marino, nella zona dei Castelli Romani. Ed è proprio al Bersagliere che ha la fortuna di conoscere Gabriele Bonci. «Ci veniva spesso a mangiare. Così ho fatto uno stage da lui, ho imparato a far la pizza in pala e in teglia e le ho volute introdurre nella carta del ristorante. Che vantava una clientela di livello. E che poteva apprezzare una pizza in versione da degustazione».
Scambio, dialogo, incontro, confronto. Spesso tutto nasce e si evolve grazie a una contaminazione di competenze. Lo sa bene Birra del Borgo che quest’anno ha mandato in scena la terza edizione della serie "Chef Bizzarri". Progetto di integrazione culturale che elegge a protagonisti i cuochi e le birre. Uniti nel condividere un comune obiettivo: scoprire e indagare nuove frontiere di gusto. Complice la pizza. In una triangolazione foriera di inediti sapori.
Così, ad affiancare mister Pezzetta, nell’eterna city si sono succeduti prima Niko Romito, giunto dal Reale di Castel di Sangro, poi Heinz Beck, sceso dalla Pergola del Rome Cavalieri per approdare in via Silla, e infine Cuttaia, giunto direttamente da quella cittadina che se ne sta al centro del Mediterraneo. Culla culturale da cui pescare linfa vitale. «Perché il mare non divide, ma unisce. La distanza fra i popoli non è territoriale, ma semplicemente temporale. Nel senso che in Turchia i gelsi maturano in un periodo diverso che in Sicilia. Tutto qua», spiega Pino. Fautore di un evento pronto a debuttare prossimamente, dal 28 al 30 settembre: Cookin’Med, nella cornice agrigentina della Valle dei Templi. Per far focus sull’etica e sulla sostenibilità del mare nostrum. Nel nome di una sinergia fra popoli, tradizioni e ambienti solo apparentemente differenti.
«Non abbiamo trovato alcuna difficoltà a mettere a punto il menu di questa serata. Perché partiamo dagli stessi valori e dalle medesime considerazioni. E poi cuoco e pizzaiolo sono accomunati da un elemento vivo: il fuoco», racconta Pino, spiegando la lista delle vivande create in tandem con Pezzetta. Una serie di piatti iconici cuttaiani, ma presentati sotto un’altra forma, sintonizzata sulla frequenza di Luca. «Ci siamo messi in gioco e abbiamo dato vita a illusioni e divertissement», prosegue lo chef stellato. Un mosaico ben riuscito, nel quale tessere importanti sono state alcune etichette di Birra del Borgo. Un birrificio nato nel 2005 a Borgorose - nella reatina Alta Valle del Salto - e sin dal principio fedele al motto di “Re(Thinking)Ale”. Per una birra libera da regole, marcatamente italiana e spesso connessa col mondo del vino. Una birra dinamica, volitiva e propositiva. «Dopotutto il lavoro del mastro birraio è simile a quello dello chef: mettere in equilibrio gli ingredienti”» precisa Leonardo Di Vincenzo, founder e ora amministratore delegato della maison brassicola.
Il via lo dà dunque una terrina. Che pare di foie gras e invece è di mortadella. Con tanto di pistacchi, pepe e olio extravergine d’oliva. Servita su carta oleata - come si usava un tempo per la merenda - con corredo di paletta. Per spalmare la rosea bontà su una focaccia a lievitazione naturale, nutrita da due grani autoctoni abruzzesi: il tenero solina e il duro saragolla. In abbinamento lei: “Lisa”. Una lager leggera e smart, brillante ed empatica, morbida e fresca. Prodotta partendo da grano senatore cappelli e virtuosa dell’aggiunta delle scorze d’arance amare.
A seguire? La rivincita del cornicione. Spesso bistrattato, abbandonato e dimenticato a latere del piatto. E invece no. Eccolo qui a esercitare il suo potere assoluto. Perché senza di lui la vivanda non può essere gustata. Un cornicione-corona, realizzato con la farina macinata a pietra Petra 3 di Molino Quaglia e indispensabile per far la scarpetta, assaporando fino in fondo la pietanza che allaga il centro della non pizza: un merluzzo all’affumicatura di pigna, arricchito da spuma di patate, olio, origano e polvere di pomodoro. Nel bicchiere: “La Saracena”, una della bizzarra collection, dalle note erbacee e dall’altissima percentuale di grano saraceno tartarico, uno pseudocereale dalle proprietà nutrizionali e funzionali.
“L’Equilibrista” è invece un coup de foudre fra wine & beer. Un’alchimia fra mosti: il 40% di quello di sangiovese e il 60% di quello della "Duchessa". Un'altra bella del birrificio, messa a punto col farro coltivato nella vicina Riserva Naturale Regionale Montagne della Duchessa. Il tutto rispettando l’iter del metodo classico. Per un prodotto spumeggiante ed esuberante, ma di gran classe. Che varia col variare delle annate.
A sposarla? Un piatto semplice eppur totale. Depositario di una memoria fondamentale per Pino: quello della fettina sottile e tenerissima, preparata dalle mamme solo con un po’ di olio e limone. Ecco, la fettina ritorna, ma di tonno alalunga, con tanto di semino del limone presente. Anzi, ben posizionato al centro della pietanza. A rammentare l’amabilissima imperfezione di un amorevole gesto domestico.
L’extravergine utilizzato per condir la “fettina” è “u Trappìtu” intenso (cerasuola, biancolilla e nocellara del Belice) firmato Terre di Shemir, azienda agricola trapanese. «Il pane che ho voluto proporre in abbinata invece è a base di saragolla e Petra 3», puntualizza Pezzetta. Perfetto per una doverosa scarpetta.
Pane - lo stesso - che torna nella pietanza successiva: inchino al no waste ma pure alla cultura povera e popolare dell’utilizzo poliedrico del cibo quotidiano per eccellenza. Pane raffermo, passato nell’uovo sbattuto, poi fritto e spolverato di zucchero. Pane vecchio, sublimato in pangrattato, ad hoc per le arancine. Oppure trasformato in mollica atturrata, per incontrare la pasta con le sarde o un calamaro. Perché no? Voilà la trasparenza di calamaro di Pino: un candido raviolo marino, con crema di broccoletti a far da “ripieno” - ma spesso ricorre ai tinniruma (germogli della pianta di cucuzza) - e salsa d’acciughe a completare. «Il calamaro non sai mai come può essere. Se piccolo o grande. E allora ho fatto il sarto e l'ho modellato su misura. Dandogli io la taglia», spiega Cuttaia.
In pairing: la “Maledetta”, crossover fra le scuole brassicole belga e anglosassone. Segni particolari? Un'anima audace e ribelle. Capace di far interagire lieviti tradizionali e lieviti selvaggi, cacciati intorno al birrificio e addomesticati. Una birra dalle nuance di miele, caramello e agrumi. Perfetta anche nell’abbraccio con un altro piatto: il pesce spatola a beccafico su caponata. Sicilia pura.
Per dessert, un non dessert: babà di semola di grano duro con insalata di arance, cipollotto, alici e bottarga. Ideale in accoppiata con la “Caos”, che lungi dall’essere disordinata, mette in armonia Duchessa e malvasia. Seguendo, come per “L’Equilibrista”, il rito del metodo classico. Per una turbolenta esplosione di aromi fruttati e floreali, uniti a una spiccata acidità.
«Finalmente stiamo facendo un po’ di rumore», dice orgoglioso Luca Pezzetta. «Ci stiamo evolvendo».
Foto di Alberto Blasetti