La pizza è un piatto. Talvolta è servita al piatto. E talaltra incarna persino un piatto tipico. Sì, uno di quelli radicati nella storia e nella memoria. Ambasciatore di un territorio e del suo genius loci. Voilà una gustosa rassegna che inanella italiani cult. Nel segno di tradizioni da mangiare con le mani. Dal nord al sud. Grazie anche al genio creativo di alcuni Petra Selected Partners, esponenti del prestigioso circuito voluto da Molino Quaglia.
I Tigli: come la polenta per il baccalà
Inseparabili. Inscindibili. Dove c’è l’una corre l’altro. E viceversa. In Veneto se la polenta chiama il baccalà risponde. In meno di un amen. E Simone Padoan rispetta il rito. Nei suoi Tigli di San Bonifacio, la “Polenta e baccalà” non manca mai. Quasi un inchino alla sua terra veronese. Dove lui è nato e cresciuto. Ma anche un tributo alla sue radici rurali. Perché lui, ultimo di nove figli (cinque maschi e quattro femmine), è diventato grande nel grembo di una famiglia contadina, con vigne e campi ai quali badare. Poi si sa, ha percorso la sua strada, ha raggiunto gli alti traguardi della professione, ma non ha mai abbattuto le fondamenta. Focaccia al mais, di conseguenza. Anzi, all’Ottimais by Petra, con baccalà mantecato, pak choi, spinacini o un altro vegetale. “Dipende. Se vogliamo ottenere un gusto più delicato e dolce, oppure uno più deciso e terragno. Abbiamo provato anche con la bietola, ma col baccalà non va d’accordissimo”, spiega Padoan. Che fa cuocere sottovuoto e a bassa temperatura lo stoccafisso, dopo averlo lasciato in ammollo. Per poi passare all’accurata operazione del mantecare. Versando a filo l’olio: di vinaccioli o di biancolilla. “Deve essere il più neutro possibile, per non compromettere il sapore del pesce”, dice Simone. Che lavora il baccalà nella planetaria con una frusta a foglia per circa un’ora. Per un risultato cremosissimo. “Somiglia a un batuffolo”, aggiunge Eva Gallo, che dirige la sala.
Il Fattore F dei cicchetti
“F”. Come farina, filosofia, fermentazione, fragranza, fierezza. Di chiamarsi Furlani (Riccardo, classe ’88) e Fraccarolo (Massimiliano, millesimo ’96). Giovanissimi e concentratissimi nella loro avventura, partita da appena un anno: Fattore F, nel cuore di Vicenza. Uno spazio vivace e dinamico, progettato da Giulia Furlani (sorella di Riccardo), che porta per logo due “effe” unite per capo e coda, sino a formare uno spicchio di pizza. Pronta a cambiar forma. Per assumere quella di un cicchetto. Sì, il tradizionale spuntino da bacaro veneziano. Il concept che F & F hanno voluto per la loro zona bar-aperitivo. Teatro dei toketin, dalla foggia tondeggiante, farciti al top. Alla maniera di un crostino. “L’impasto è simile a quello della nostra Sensazione, una pizza al padellino. Solo che in questo caso la cottura avviene prima al vapore e poi nel forno elettrico. Per ottenere la massima scioglievolezza interna e una bella crosticina esterna. Poi finiamo con ingredienti di stagione”, puntualizza Furlani. Che col socio prepara toketin con bufala Barlotti e pomodoro di Paolo Petrilli; burrata e alici; burrata, dadolata di zucca, speck de ’na ’olta by La Casara Roncolato e semi di zucca; e con radicchio trevigiano sfumato al Valpolicella, burratina, sopressa vicentina e Asiago stravecchio. “Ma in estate li proponiamo anche col pesce spada affumicato e concassé di pomodorini”, continua Riccardo.
Lipen fra ragù e pizzoccheri
"È nata da un’idea dei ragazzi della mia brigata. Ogni lunedì sera noi prepariamo la pizza e la mangiamo tutti insieme. E loro? Continuavano a volerne fare una col ragù. Insistevano. Così alla fine l’abbiamo messa in carta", racconta Corrado Scaglione. Patron del Lipen di Canonica, frazione di Triuggio. In una Brianza già mossa da un gradevole saliscendi. “Prepariamo un ragù ricco. Con abbondante pomodoro e con le carni di maiale e di fassona della macelleria di Sergio Motta di Inzago”, continua Corrado. Fiero di dar forma a una “Margherita al ragù” che par di mangiar corroboranti tagliatelle al sugo. Solo che il carboidrato è sublimato in un impasto ben idratato e la scarpetta è già incorporata. Complici provola affumicata, grana padano ed extravergine. Il tutto servito sotto forma di una pizza tonda al piatto, dal cornicione ben alveolato. Visto che lui, Scaglione, fa parte dell’Associazione Verace Pizza Napoletana. Ed è pure un Ambasciatore del Gusto. Proprio come Renato Bosco, col quale intreccia una serata a quattro mani, in programma il 12 marzo.
Impasto Napoli style anche per la “Pizzocchera”, traduzione prêt-à-manger del tradizionale piatto di Teglio, in provincia di Sondrio. Solo che in questo caso si dà voce a una crasi partenopeo-valtellinese: fior di latte di Agerola; erbette e patate saltate in padella con burro, salvia e aglio; e Bitto. Ma non uno qualunque, macché: lo Storico ribelle. Quello controcorrente, incorruttibile, aggrappato agli alpeggi e tutelato come Presidio Slow Food. Tant’è che questa è una pizza dell’Alleanza (il Lipen fa pure parte dell’Alleanza Slow Food dei Cuochi) e, per ogni comanda, un euro viene devoluto ai presidi minori. Un consiglio: provarla in versione integrale, grazie a un impasto messo a punto con PetraViva e Petra 9. Per ricordare l’aroma terragno del grano saraceno dei pizzoccheri.
La Grotta Azzurra, lo scoglio e il taleggio
È nato a Lecco. Ma non ha dimenticato le sue origini campane. E allora? Rende onore sia alla Lombardia sia alla Campania Felix Cristian Marasco, che con la family guida La Grotta Azzurra. Insegna una e trina. Sì, perché sotto lo stesso nome stanno il grande headquarter di Merate; il locale di Bonate di Sopra, nella Bergamasca; e quello di Garlate, con vista sull’omonimo lago. Intanto? Lui pensa al mare. E traduce gli spaghetti allo scoglio in una pizza pronta a inanellare fiordilatte, polpo, cozze, vongole, code di gamberi, prezzemolo fresco e olio piccante. Anche in versione con tarallo napoletano sbriciolato. Per un tocco in più. E per dimostrare che la pizza col pesce sta benissimo. Alla base, un impasto iper digeribile, nutrito da un blend di farine quali Petra 1, Petra 3, Unica e Petra Bio 1111; acqua di Merate; un pizzico di sale marino di Trapani e 96 ore di lievitazione e maturazione. “All’impasto bisogna concedere tempo. Per questo il mio arriva sino a quattro giorni. Il riposo e l’attesa regalano più gusto alla pizza".
E per gli integralisti della pasta? “Spaghetti in crosta di pane”, per l’esattezza. In cui ci mette lo zampino il fratello Mario, responsabile della cucina. In pratica: classici spaghetti allo scoglio, cotti in forno, dentro un coccio ricoperto da un disco di pasta della pizza. Da rompere per irrompere nel mare di sugo.
E poi? C’è la terra d’adozione di Marasco. La lombarda Brianza. Dove uno dei piatti forti della domenica è la polenta col formaggio. Pertanto: “Lumbard!”. Col punto esclamativo. Quasi un monito a sperimentare una pietanza fondente, nella quale si rincorrono fiordilatte, taleggio della Valsassina, grana padano 24 mesi e carpaccio di polenta: bianca, gialla e di grano saraceno.
Dry: vitello tonnato o cassoeula?
Piemontese o lombardo che sia il vitel tonné rimane sacro. Soprattutto da Dry Milano. “La focaccia col vitello tonnato qui è un cult, dal tempo di Simone Lombardi. L’ho voluta lasciare e non la toglierò mai dalla carta, per rispetto di ciò che il Dry è stato e di quello che sarà”, spiega Lorenzo Sirabella, dominus di forno e impasti nel locale di via Solferino. Mentre l’insegna di via Vittorio Veneto va sotto la supervisione di Simone Timur Isayev. Dove certo non manca la vaporosa focaccia - con 72 ore di lievitazione, preziosa della farina Unica di Petra - che contempla vitello tonnato e polvere di capperi. Ideale anche in abbinamento a un buon cocktail.
Ma attenzione. Al Dry di Solferino Lorenzo osa. Supera le sue radici - la mamma è napoletana e il papà è ischitano - e mette in carta la rilettura (decisamente alleggerita) della mitica cassoeula. Il che significa verza (saltata in padella con aglio, olio e peperoncino), luganega, cipolla rossa, grana padano, riduzione di vino rosso e fiordilatte casertano. Una pizza meneghina. Impasto a parte. Con una precisazione sirabelliana: “La mia è una napoletana al 90%. Perché l’impasto è indiretto, perché conta su 48 ore di lievitazione e perché la cuocio un pochino di più rispetto ai canonici 45-50 secondi”.
Pizzium e le polpette al sugo
Venti. Come le regioni italiane. Molise e isole comprese. Tante sono le pizze di Pizzium, che ormai ha all’attivo ben diciassette locali fra Milano (colonizzata da ben sei insegne), Serravalle, Gallarate, Como, Seregno, Varese, Busto Arsizio, Brescia, Torino (dov’è scattata la doppietta), Roma e Bologna. Dove ha aperto all’incipit del 2020. Le carte delle vivande però sono tutte uguali e rendono omaggio al Bel Paese (più qualche grande classico). “Quando i commensali leggono il menu avvertono istintivamente un senso d'appartenenza. Che li conduce verso l'una o l'altra direzione lungo lo Stivale”, dichiara Nanni Arbellini, vulcanico deus ex machina del gruppo. Pizze-puzzle della Penisola che, di volta in volta, valorizzano questo o quell’ingrediente tipico. Sino a emulare i piatti della cultura gastronomica locale. Come accade per le pizze “Lazio” e “Abruzzo”. Nel primo caso una carbonara reloaded, con guanciale, pecorino romano, tuorlo e pepe nero. Nel secondo una verace amatriciana da agguantare con le mani.
La pizza? Una napoletana dal mood gioviale e moderno. “Utilizziamo la farina Special di Petra. Una farina di grano tenero di tipo 0. Lavorando con un impasto indiretto, figlio dell’autolisi e di 26 ore di lievitazione. Dobbiamo assicurare una pizza corretta, ripetibile e riconoscibile”, precisa Nanni. Che non trascura le polpette al sugo. Polpette di manzo e maiale in sugo di pomodoro, basilico e grana padano tuffate nel panuozzum. Un panino aperto. “Non avrei potuto non proporle. Mia mamma Carmelina mi ripete continuamente: ricorda che s’i figlio d’u’ purpettaro”.
La Pergola, il cinghiale, i fegatini e il pollo alla cacciatora
Toscana da ammirare: dalla terrazza. Toscana da mangiare: una volta seduti a tavola. Crede nel chilometro vero Tommaso Vatti e lo dimostra. In quell’insegna che da ormai vent’anni porta avanti con la sua famiglia: La Pergola, incastonata come un cameo nelle colline senesi di Radicondoli. Un locale semplice, eppur spettacolare. Con Tommaso e Federico (aka Ghigo) ai comandi, e con intorno tutta la truppa: mamma Velia, papà Mauro e Silvia, moglie di Tommy. Anche lei, spesso e volentieri, alle prese con gli impasti. Che, supportati dagli ingredienti giusti, danno vita a veri e propri piatti di matrice regionale. Così il cinghiale sfilettato alla maremmana diviene pizza. Sotto: un impasto realizzato con le farine Petra 1 e Petra 9 e cioccolato Valrhona. Sopra, insieme al cinghiale: olive al forno, lardo di cinta senese e pioggia di pecorino del localissimo Podere Paugnano.
E il crostino ai fegatini dove lo mettiamo? Sempre sulla pizza, naturalmente. Meglio ancora se con Petra Evolutiva in purezza. “Ho ricercato nella farina la parte erbacea delle piante officinali”, spiega Tommaso. Che completa la pizza con fegatini di pollo e cipolla caramellata. “Uso una cipolla maremmana, alquanto minerale, perché cresce in un terreno piuttosto ferroso. Quello di un agricoltore di Massa Marittima che crede molto nel bio e nella sostenibilità”, continua lui. Fiero di finire il tutto con qualche cappero di Pantelleria. A dar l’accento sapido. Fegatini, ma anche fegatello di cinta senese (dell’azienda agricola Spannocchia, nella Riserva Naturale Alto Merse) con cipolla di Certaldo al forno, finocchio selvatico e pancetta di cinta.
Ma Vatti non dimentica certo i fagioli all’uccelletto, trasformati in crema e abbinati a salsiccia di cinta. Ricavata esclusivamente dalle costole del maiale. Può bastare? E la chianina? Eccola. Sotto forma di tagliata, tartare, carré arrosto e stracotto di gota. Finché il pollo alla cacciatora non reclama il suo ruolo. Su una pizza che chiama all’appello pollo del Valdarno, pinoli pisani e crumble di bruschetta all’olio extravergine d’oliva. Che qui non manca mai. Anche perché l’insegna fa parte di Airo, l’Associazione Italiana Ristoratori dell’Olio.
L’Apogeo dei tordelli
Tortelli? No tordelli, con la “d”. In terra di Lucca li chiamano così i ravioli a mezzaluna, dal ripieno di carne ed erbe aromatiche. Lo sa bene Massimo Giovannini che con la consorte Barbara Boniburini conduce l’Apogeo di Pietrasanta. E lo sa talmente bene che li mette in carta. Nella sessione #oltrelapizza. Spontanea emanazione di una saga alimentata da serate a più mani (la prossima, con il maestro Corrado Assenza, va in scena giovedì 19 marzo), durante le quali sono fermentate nuovissime idee. Della serie: dare un inedito ritmo alla degustazione. Che non resta una mera successione di spicchi ma una staffetta di impasti alternativi, perfettamente fusi con la cucina. “Dopotutto in un ristorante mica si mangiano solo antipasti, primi o secondi” dice saggiamente Massimo. Così i tordelli diventano calzoncini-panzerottini fritti, colmi di macinato di carne, mortadella, bietole, ricotta, pecorino, timo e altre erbe. Serviti con una cucchiaiata di ragù al top. E nevicata di parmigiano.
Battiloro e la pasta, fagioli con le cozze
Condensa terra e mare. E si consuma comunemente nei cosiddetti chalet: caratteristici chioschi posizionati nelle località marine campane, specialmente napoletane. È la pasta e fagioli con le cozze. Un piatto popolare. Che Gennaro Battiloro - nato a Torre del Greco - coniuga in pizza, mettendoci pure qualche flashback d’infanzia. “Me la preparava nonna Rita. Lei aveva la consuetudine di tenermi in braccio e, per abituarmi a tutti i sapori, intingeva il cucchiaino in quel che preparava. Così da sporcarmi la bocca e farmelo assaggiare”, racconta Gennaro. Capitano del regno che porta il suo cognome, a Querceta di Seravezza, vicino a Forte dei Marmi: Battil’oro. Con l’aggiunta di Fuochi + Lieviti + Spiriti. Per accendere il riflettori su forno a legna, impasti e cocktail. Altra peculiarità del luogo. Dove la minestra campana si converte in una pizza dall’aura partenopea, pescando i fagioli rossi di Lucca - un Presidio Slow Food - le chips di parmigiano reggiano stagionato 18 mesi e i celebri molluschi.
L’amatriciana sale La Scaletta e prende una Gran’Aria
A un passo dal confine con l’Abruzzo era più che doveroso dedicare una pizza alla leggendaria amatriciana. Al punto da tenerla fissa in carta, insieme ad altre referenze gourmet. Così, Mirko Petracci, patron de La Scaletta di Ascoli Piceno, la buona “Amatriciana” la alza a vessillo. E con lei la salsa di pomodoro San Marzano biologico, il guanciale di maiale (allevato allo stato semi brado), la cipolla bianca, il pecorino romano e una generosa macinata di pepe fresco. Una pizza che dà fiato alla tradizione, respirando una Gran’Aria: l’impasto a marchio registrato di Mirko. Che parte da tre pre-fermenti, virtuosi di tre diverse farine griffate Petra: Unica per il rinfresco del lievito madre liquido (licoli); Petra 1 per la biga e l’integrale Petra 9 per il poolish. A cui seguono 36-48 ore di attesa e pazienza. Prima dell’entrata in forno. Dal quale esce una pizza evanescente e crunchy.
E poi? C’è un’agreste ricetta picena, che recita “Ncip Nciap”, emulando onomatopeicamente il dolce suono che fa il coniglio rosolando in padella con olio, aglio, rosmarino e vino bianco. Voilà la versione pizza: filetti di coniglio cucinati secondo la maniera marchigiana, crema di cime di rapa, crema di provola affumicata e olive taggiasche.
Broccoli e arzilla all’Osteria (di Birra del Borgo)
Roma caput mundi. Ma ci sono anche i Castelli Romani. Da cui lui proviene. Dove lui affonda le sue radici. E pure i suoi ricordi. “Ho voluto rileggere un piatto al quale sono molto legato. La minestra di broccoli e arzilla. La razza, come viene chiamata da noi”, spiega Luca Pezzetta. Millesimo 1989, nato a Marino, cresciuto a Grottaferrata. Con nonno Goffredo, che lì aveva un ristorante-pizzeria. Ma anche papà Giustino a un certo punto ci mette lo zampino. Tenendoselo per un po’ accanto nell’osteria Il Bersagliere, a Colonna. Tombola. Perché è lì che Luca conosce Gabriele Bonci. E fare uno stage dal pizza hero è un attimo. Poi? Esperienza e talento lo conducono all’Osteria di Birra del Borgo. Dove Luca prende la minestra, toglie la pasta e ci mette la pizza. Trasformando un piatto da cucchiaio a una vivanda da agguantar con le mani. Una pizza virtuosa di broccoli romaneschi in crema (complice il fumetto di pesce) e ripassati in padella; pomodoro confit; scaglie di pecorino romano; e razza cotta in forno, tuffata in un brodo di verdure. Un inchino alla memoria, alla famiglia e alla cucina capitolina. Che Luca fa anche all’hub Identità Golose Milano, sabato 7 marzo, in occasione di una cena polifonica con i colleghi Simone Padoan, Renato Bosco e Franco Pepe. Intanto, nella carta dell'Osteria, spiccano anche i carciofi alla giudia. Fieri di finir nell’antifocaccia, una versione Pezzetta style della pizza in padellino. Che accoglie i carciofi fritti, il gambo di carciofo in crema e i carciofi alla romana.
Salsiccia e friarielli secondo I Masanielli
Rigorosamente a punta di coltello. Così vuole la tradizione che sia tagliata la salsiccia: in maniera grossolana, e non finemente macinata. E Francesco Martucci? Non tradisce il diktat e trasferisce sia la salsiccia che i friarielli dal piatto all’impasto. Cambiando un po’ le carte. E pure il nome: “Mani di Velluto”. La salsiccia è di autoctono suino grigio ardesia; i friarielli divengono una crema, cui concorre l’acqua di ricotta di bufala; la mozzarella è rigorosamente di bufala campana; e il Calcagno è a crosta liscia, ottenuto dal latte di pecora.
Ma mister Martucci, nei suoi Masanielli vicinissimi alla Reggia di Caserta, non trascura gli ziti alla genovese. Come potrebbe? Allora li ritrae a modo suo nella “Genovese”, virtuosa dell’immancabile cipolla, del fiordilatte e del conciato romano. E il ragù? Francesco lo fa pippiare per dodici ore, utilizzando il pomodoro lampadina: un tipo rosso e bio, dalla forma allungata, che cresce sulla collina di Quisisana, a Castellammare di Stabia, nell’agricola maison Dama, di Marianna D’Auria. Complici guanciale di suino grigio ardesia e Calcagno. Condimento valorizzato da una base dalla triplice cottura (e dalla consistenza unica): a vapore, a 100°C; fritta, a 180°C; e in forno a legna, a 380-400°C.
Ma non mancano la “Parmigggiana” (sì, con tre “g”), sintesi di San Marzano, melanzane e parmigiano reggiano di vacca bianca modenese, un Presidio Slow Food. E neppure la “Uovo e Tartufo”, un grande must dell’alta cucina. Che abbandona il padellino per convertirsi all'impasto: crema all’uovo di gallina livornese, guanciale croccante di maiale tranquillo (quello by Bettella), fiordilatte, tartufo invernale del Matese e olio extravergine al tartufo.
Se la pastellessa è Doro
Certo, non è un piatto di tutti i giorni. Ma di un dì di festa ben preciso. Quello di Sant’Antuono, il 17 gennaio. Sant’Antonio Abate, per capirci. Che a Macerata Campania, nel Casertano, si celebra tutti i santissimi anni con un rituale ancestrale animato da carri e percussioni di tini, falci e botti. Le cosiddette Battuglie di Pastellessa, termine usato per indicare sia il rumore-fragore generato dalla sfilata sia la iper tipica pasta con le castagne lesse. Consumata nella vigorosa giornata. Pastellessa che Luca Doro, titolare dalla pizzeria Doro Gourmet, trasforma nella golosa “Pizzellessa”: un impasto fragrante - Petra addicted - colmato da castagne lesse, mozzarella di bufala, guanciale di suino nero casertano, scaglie di pecorino di laticauda (razza ovina dalla coda grassa e larga) e perle di peperoncino crusco. A dar la nuance piccante.
Archestrato di Gela: come un tortino di alici
Poeta siceliota della colonia greca di Gela, Archestrato visse nella seconda metà del IV secolo a.C. Un uomo colto, amante della buona tavola. Un precursore di Epicuro e di Apicio. Un gourmand ante litteram. “Mio padre Edoardo, imprenditore, amante della cultura greca e con un trascorso da docente all’Accademia di Belle Arti, disse che se mai un giorno avessimo avuto un’attività ristorativa l’avremmo dedicata al letterato, autore del poema Gastronomia”, precisa Pierangelo Chifari, pizza chef dell’insegna palermitana Archestrato di Gela. Dove tutte le pizze sono intitolate a un quartiere o a una contrada della cittadina posizionata in terra nissena. Come la “Sabuci”, che par un raggiante tortino di alici alla siciliana da assaporare a spicchi. Condensando l’energia mediterranea in una pizza preziosa di scarola riccia passata in padella, tuma di Castelvetrano, alici, olive di Gaeta, pomodorini datterini e uva passa di zibibbo di Pantelleria. L’isola dell’isola.
Foto I Tigli by Aromicreativi
Foto Fattore F by Giulia Furlani
Foto La Grotta Azzurra by Brambilla-Serrani
Foto Apogeo by Stefano Tommasi
Foto La Scaletta by Webeing.net
Foto Doro Gourmet by Enrica Guariento