Marco Sacco preme rewind. E ricomincia. Dalla fine. O meglio, dalla piccola pasticceria tradotta in amuse bouche. Salati, naturalmente. Serviti su un tronchetto di legno. Quasi a comunicare che nulla è come sembra. Fatta eccezione per il luogo. Sì, il Piccolo Lago - quarantaquattro anni di attività e undici di duplice stella Michelin - cambia. Rimanendo sempre se stesso: una palafitta a picco sul lago di Mergozzo, a Verbania.
Fuori: acqua e verde, lago ed erba. Dentro: fuoco e rosso, legno e cristallo, sala e cucina. Senza soluzione di continuità. Perché le vecchie travi dialogano con la trasparenza del futuro e la modernissima kitchen si fonde con l’eleganza di un salotto che pare tuffarsi nella liquidità. Una baita lacustre capace di sintetizzare materia e immaginario, sogno e realtà, poliedricità ed essenzialità.
“A ottobre il Piccolo Lago si ferma. E il mondo Sacco inizia a viaggiare. Per poi tornare e pensare a nuovi percorsi culinari”, spiega lo chef. La cui mente non conosce stop. Ma solo strade sulle quali camminare. Guardando indietro e avanti. A destra e a sinistra. Su e giù. Oppure chiudendo gli occhi. Per meglio riflettere e meditare.
Intanto, il lollipop di cioccolato fondente non è ciò che appare. Un trompe l’œil. Inganno, illusione, concetto, visione. Un cioccolatino ripieno di fegatini di pollo, sale di Maldon e peperoncino. E il marshmallow? È di calamari, con aceto di calamansi (o lime delle Filippine), mais e pepe di Szechuan. Il bignè è invece all’olio con ripieno di taleggio di bufala, e la tartelletta - con frolla al parmigiano - cela una farcia di broccoli, paprika dolce e basilico. Il prologo di un’opera inedita.
Di latte, cipolle e lumache
“Prodotto, prodotto, prodotto” è il mantra di Marco. Che valorizza differenti ingredienti elevandoli in piatti. E in un percorso che non segue la logica dell’iter antipasto-primo-secondo, per divenire esclusivamente esperienza sensoriale ed emozionale. Insomma, nessuna regola, nessuno stereotipo. E al bando pure schemi e cliché, per lasciare il passo alla libertà di espressione del singolo elemento. Che diviene l’unico e vero protagonista. Valorizzato nella sua massima profondità e in tutta la sua potenzialità.
Almeno così accade nel menu-voyage “Un sacco innovativo: 10 piatti avanti”. Perfetto per chi ama sperimentare, concedendosi alla meraviglia e allo stupore dell’inatteso. Solo tre i punti fermi, presi come bussola dal cuoco. In primis, le materie prime del territorio e dei dintorni. Rispettando la formula del km 100. Andando cioè dalle risaie alla montagna, dal bosco al lago. Che diviene un altro leitmotiv, sull’onda del Movimento Gente di Lago: laboratorio in fieri che si propone di tutelare e riconsegnare dignità alle dolci acque di fiumi, laghi e torrenti (movimento che sta per tornare con un dinamico ciclo di appuntamenti). Infine, i prodotti, i profumi e i sapori del mondo. Catturati nei viaggi. E riportati a casa dentro una valigia colma di idee.
Ecco allora la lumaca. Che non pare proprio una lumaca. “Dovete dimenticarne l’aspetto. Per fare in modo che la degustazione sia priva di preconcetti”, spiega mister Sacco. Che lavora sull’eliminazione della forma. Per restituire l'effetto sorpresa. Lumaca, dunque. Dell’azienda La Casina della Chiocciola, a Briona, nel Novarese. Chiocciola eviscerata, privata dei suoi succhi e trattenuta per il piede, che viene stufato e trasformato in pâté. Glassato con burro di cacao aromatizzato all’aglio e prezzemolo. Il tutto completato da una salsa di Castelmagno, principe dei formaggi cuneesi. Un abstract di Piemonte in un quadro astratto.
Altro prodotto local? Il cavolfiore: cotto al forno e ricoperto da una salsa mou a base di se stesso, panna e zucchero. Un cavolfiore al quadrato, bruciato con un cannello e spennellato di papaccella, peperone dolce di origine campana.
Poi arriva la cipolla. O meglio, un raviolo di pasta fresca farcito con cipolla ramata di Montoro, cittadina in provincia di Avellino. Cipolla che viene cucinata insieme a un biancostato di manzo. Dopodiché la carne viene tolta e tutto il resto viene frullato per dar vita a un ripieno. In cui si sommano memorie di bollito piemontese e ricordi irpini. Mentre una spuma di bettelmatt avvolge la pietanza. “È un formaggio d’alpeggio che nasce a mille metri, da soli sei produttori”, spiega Marco.
Ma dalla montagna al lago il passo è breve. Voilà il gardon. “Un pesce invasivo. Di cui non abbiamo tradizione. Ma che ormai abita le nostre acque”, puntualizza lo chef. Che accoglie lo “straniero” a braccia aperte. Riducendolo in tartare e forgiandolo in polpettine, complice la presenza del riso carnaroli cotto a vapore con limu omani o black lime. Ad avvolgere le mini balls: farina nera di riso artemide. Il tutto tuffato in un brodo di lago, messo a punto con teste e lische del gardon (più peperoncino, zenzero e lemongrass). Oriente, Occidente e Medioriente da cogliere col cucchiaio. Per un gardon davvero glocal.
E il fratello salmerino? C’è pure lui. Cucinato sottovuoto a bassa temperatura con un granello di sale. Per conservare la tenerezza delle sue carni. Al top: la sua pelle, arrostita e sublimata in chip. Accanto: una ketchup di peperoncini sudamericani e ’nduja. Piccante, ma non troppo. Ricordo di un barbecue in riva al torrente.
Ma lo storione non manca. Anzi, il suo caviale: targato Volzhenka, maison russa di Astrakhan meritevole dell’aver adottato un metodo di estrazione cruelty free. Un caviale sostenibile. Protagonista del Movimento Gente di Lago e pure di una linguina al farro. Insieme a semi tostati di chia, burro d’alpeggio e pasta di nocciole piemontesi. Lusso e pop. L’armonia della diversità.
Marco, sua moglie Raffaella e i ragazzi della brigata però viaggiano. E aprendo il bagaglio trovano l’abalone. Mollusco californiano proposto in tartare. In tandem con una maionese realizzata con olio, acqua di mare e corallo. Un po’ d’assolata passione americana nella terra del Verbano-Cusio-Ossola.
Dall’Ungheria viene invece il maiale pecora: il lanuto suino di razza mangalica. Che Sacco rilegge in chiave ragù napoletano. Usando il capocollo e accostandolo a un trittico di salse al pomodoro: San Marzano, datterino essiccato e reidratato, e del piennolo giallo. Un piatto-concentrazione di sapere e sapore.
Una cucina giovane quella di Marco. Talmente giovane da bere ancora il latte. Ritratto in un dessert semplice e immacolato. Che riporta la purezza a contatto col palato. Latte fresco di mucca ossolana, montato e lavorato, al fine di ottenere un gelato. Cagliata, arricchita dal limone, per raggiungere la freschezza. E poi: pellicina, leggermente bruciacchiata, a ricordare quella che si crea facendo bollire il latte. A finire, rabarbaro: in composta (la cima) e marinato a freddo sottovuoto (il gambo). Non dimenticando un crumble di farina di riso e cioccolato bianco.
Per concludere: le mele. Renette, cotte nel burro e zucchero di canna. Attrici di una tarte tatin in cui la frolla è egg free, abbinata a un gelato alla vaniglia. Una torta conviviale, da dividere e assaporare. Rassicurante e rilassante. Come un fine pasto deve essere.
A seguire, la piccola pasticceria. Presentata su tronchetti, sassi e cestini di bambù. Piccole gioie per il cuore. Così come confortevole è il pane di segale, servito con lo spumoso burro d’alpeggio. Un must del Piccolo Lago.
Una squadra coesa quella capitanata da Marco Sacco. Affiancato da Marco Rispo e Silvestro Zanella. Mentre ai dessert c’è Andrea Valle. In sala? La dea ex machina Raffaella Marchetti e i sommelier Alessandro Mantovani e Sayaka Anzai. Sempre pronti a suggerire l’etichetta perfetta.
Dietrofrónt, ma non troppo
Per par condicio, se dieci piatti guardano avanti, altri dieci osservano il passato. Anche se la proposta storica del Piccolo Lago è più un ritorno al futuro che un voltarsi completamente indietro. Del resto: “Nemmeno un piatto storico è statico. Ha sempre un gancio con il presente, può essere sempre attuale, anche se fatto vent’anni fa”, Marco docet. E prepara la carbonara au koque, usando i tajarin al posto dei bucatini e sostituendo il guanciale con il prosciutto 42 mesi della Val Vigezzo. A chiosa: una salsa all’uovo e Major Gin (figlio del Lago Maggiore) da versare live.
Non dimenticando il lingotto del Mergozzo, il flan di bettelmatt, l’anguilla e il topinambur: al naturale, in crema e in versione fritta e crispy. Terra. Genius loci. Eppur sempre tradizione in perenne evoluzione.
Un menu studiato per catapultare il commensale fra i cult del ristorante stellato. Senza mai perdere di vista la contemporaneità. Mentre il tasting “Curioso ma non troppo, 5 piatti”, è ideale per una breve passeggiata fra gli hightlights dello chef. E per chi volesse abbandonarsi al volere di Sacco. Ecco “In cucina con Marco”. No, non un tavolo tra i fornelli, bensì un itinerario senza limiti e programma. Solo l’orario di partenza è stabilito, come al gate di un aeroporto. Per il pranzo: ore 12.30, dal giovedì alla domenica. Per la cena: ore 19.30, dal mercoledì alla domenica.
Il ristorante è infatti aperto tutte le sere, dal mercoledì alla domenica. Al mezzodì, dal giovedì al dì di festa.
Foto ritratto di Marco Sacco by Adriano Mauri