“Uso tecnica e cuore. In purezza. Oppure in blend. Perché l’una non esclude l’altro. Possono anche coesistere”. Così parlò Paolo Griffa: classe 1991, radici in quel di Carmagnola, quasi due metri di altezza, ali sulle spalle, piedi ben saldi a 1.224 metri e mani operose in un cinque stelle: il Grand Hotel Royal e Golf di Courmayeur. Ma la testa non sta certo fra le nuvole. Anzi. Lui è un tipo puntiglioso, meticoloso, metodico. “In cucina ho dieci righelli. Se sono storti? Li scarto. Sono razzista. Ma solo in questo senso”, dice il giovane chef di lungo corso.
Sì, Paolo non è una matricola, nonostante la freschezza dei ventotto anni. A dargli l’imprinting? L’Istituto Giolitti di Torino. Poi è stata tutta questione di passione, di tenacia, di forza di volontà e di un’innegabile marcia in più. Skills che lo conducono in Belgio a fare uno stage. E a imparar la magia molecolare di arie e spume. Poi? Un tuffo in picchiata nelle fucine del Combal.Zero, da monsieur Davide Scabin. Prima, ai secondi. In seguito, nella pastry zone. Non basta. Paolo va da Marco Sacco, al Piccolo Lago di Mergozzo. Inizia agli antipasti. Finisce in pasticceria. “Sarà perché sono tutto pesi e misure”, dice lui. Fatto sta che la dolcezza lo forgia per bene. E gli consegna le armi vincenti: scrupolosità, accuratezza e rigore.
Manca ancora qualcosa. E allora vola in Francia. Alla corte di Serge Vieira. “Avevo necessità di completarmi. E da Serge ho appreso l’arte dei brodi, delle salse e della perfetta cottura delle carni”, racconta Griffa. “Ho anche capito quanto la cucina francese sia diversa dalla nostra. In Italia abbiamo le ricette della mamma, della nonna, della zia, della tradizione. Con tutta la variabilità che ne consegue. Basti pensare a tutte le variazioni possibili sulla carbonara e sulla salsa di pomodoro. Invece loro no. Hanno codificato tutto. Facendo attenzione alle sfumature. Hanno la salsa périgord e quella périgourdine. Cambia il taglio del tartufo? E allora cambia anche il nome della salsa. Così si creano unioni e concordanze e si evitano perdite di tempo”, dice con piglio sicuro Paolo.
Tutte esperienze che lo hanno formato e plasmato. Inclusa la vittoria alla finale italiana del S.Pellegrino Young Chef (nel 2015) e la partecipazione (nel 2017) al Bocuse d’Or. Dove gareggia tra i finalisti della sessione italiana. “Il Bocuse d’Or ti insegna a saperti organizzare. A essere obiettivo e razionale. Ti fa capire che a un certo punto ti devi concentrare e abbandonare le cose inutili e frivole. Ti mette di fronte a molteplici sliding doors. Ti fa ripetere i gesti. Ti fa accelerare. È un allenamento. Una palestra”. E Griffa ne è uscito muscoloso.
Muscoli cerebrali i suoi. Non tanto fisici, vista la sua esile e filiforme silhouette. Muscoli mentali. Capaci di fargli fare un vigoroso scatto in avanti. A conferma? Il recente riconoscimento da parte della Guida dell’Espresso 2020, che lo ha incoronato “Giovane dell’Anno”. Un under trenta con tante responsabilità. Sua è infatti tutta la regia del Petit Royal, salotto gourmand del lussuoso albergo cormaiorese. Mentre il Bistrot e il Grand Royal sono guidati live da Andrea Alfieri. Anche lui, come Paolo, un Ambasciatore del Gusto e uno chef Chic, ossia facente parte dell’associazione Charming Italian Chef.
Petit Royal. Piccolo, intimo, riservato. Solo una trentina di coperti. Solo tavoli tondi. Solo luce naturale e lampade e faretti by Flos. Solo tovagliati candidi. Solo foto in black & white (by Pietro Celesia). Con la neve e il Monte Bianco a farla da padroni. Pulizia, essenzialità, purezza. Niente fronzoli. Evanescenza. Eccenzion fatta per il più materico legno. Di noce: pronto a sublimare nel cestino del pane, con tanto di griglia per non far formare l’umidità. Ma anche di acero bianco e di pino: a incarnare porta posate, supporti, piattini e vassoi. Utili a presentare appetizer e dintorni. “Li ho fatti realizzare da artigiani locali”, precisa con orgoglio Paolo. Che si è occupato personalmente - in tandem con l’architetto Leonardo Macheda - di disegnare la kitchen. Venti metri quadrati di illuminata funzionalità. Fra superfici in neolite, rivestimenti in soft touch nero, pavimento in grès, piastrelle giunte direttamente dalla Norvegia e una cucina professionale targata Gico. “Ho costruito tutto come volevo io. Scegliendo anche le altezze dei ripiani. Per lavorare in comodità”, dice Griffa. Affiancato da Nicolò Talpo, Luca Invernizzi e Bryan Veneziano. Mentre ai dolci sta la pasticcera di origini ragusane Titti Traina.
E la carta? È divisa in due parti (messa a punto dalla Legatoria Verna di Vercelli). “La prima è pensata per accontentare colui che ha paura di rischiare. Vi sono una serie di piatti ben definiti. Tu li scegli. Io te li servo. Stop. Sai con certezza cosa ti arriva a tavola. Non è un’avventura. Invece, la seconda parte è costantemente animata dall’effetto sorpresa. Ed è studiata per chi ha voglia di giocare e sperimentare. Certo. A volte è complicato comunicarlo all’ospite. Ma noi cerchiamo di farlo nel miglior modo possibile”, puntualizza lo chef. Che nei menu degustazione “Declinazioni” dà il via a una discesa libera lungo la creatività. A commensale non resta che affidarsi al cuoco e fidarsi del cuoco. È come firmare un patto di reciproca fiducia. Per poi dialogare e interagire con le pietanze. Grazie alle forchette, alle pinzette, alle mani. Tanto, salviette umide ed ebbre di erbe sono lì, pronte a resettar la pelle.
Insomma, niente regole. Solo un regolo a scandire i menu top secret. Ciascuno intitolato a un elemento, a una suggestione, a un’idea, a un concetto. Cinque campi semantici nei quali Griffa si esprime: camminando, correndo, andando nel bosco, seguendo il torrente, raggiungendo le vette. Ma tenendo ben salda la corda di un leitmotiv. Senza mai cadere nella ridondanza. “Io posso cambiare tutto. Ma ci deve essere un fil rouge a legare le portate”, spiega Paolo. Che nelle sue creazioni mette tecnica, cuore, ricordi, emozioni, viaggi. “I viaggi ti fanno conoscere le persone. E pure come mangiano, come servono, come concepiscono un ingrediente, seguendo una determinata filosofia”.
Voilà “Fuoco e Fiamme”: seducente e intrigante compendio di vivande scottate, cotte, affumicate, passate alla brace, idealmente bruciate e carbonizzate. “Foglia”. Menu veg? Chi l’ha detto? Le foglie possono anche far da corredo, involucro e scrigno. Come nel caso della faraona cotta nelle foglie di fico. “A colori”: sequenza di pietanze monocrome o policrome. Come nel caso dello storione (o del nasello) multicolor, multiculturale e multilingue. Cucinato nel latte di cocco, presentato in cinque pezzi e affiancato da sole tre salse: funghi, pimpinella e salvia; barbabietola, aneto e crème fraîche al rafano: zucca al curry, coriandolo e peperoncino. Con riso artemide a latere: però cotto in forno, al pari di un basmati. E ancora, “Né carne né pesce”, ossia il tasting vegetariano, e “I love Aosta”, focus sul territorio, sulla tipicità, sulla tradizione. Ma da un’altra prospettiva. Infine, il menu “Jolly”: summa di piatti, estrapolati dai vari menu. Un atto di fede nei confronti del vangelo di Paolo.
Piatti dal respiro globale. Anche se è il genius loci a dare il timbro. “In principio, ho vissuto il territorio come costrizione. Al contrario, presto si è rivelato un’opportunità. Perché questa è una regione da scoprire col lanternino. Basti pensare che si contano un’ottantina di tipologie di patate. E vi è persino un parco con una settantina di varietà differenti di timo”, continua lo chef. Attentissimo al lato green. “Per le verdure ci riforniamo all’Institut Agricole Régional di Aosta. Per le erbe aromatiche invece ci rivolgiamo soprattutto alla fondazione Sistema Olligan, una onlus che si occupa di ragazzi diversamente abili, impiegandoli nel lavoro agricolo”, racconta Griffa. Che va da loro e con loro piega la schiena e mette le mani nella terra. Non dimenticando il foraging. “Lo praticavamo anche da Vieira. Amo la pimpinella allo stato selvatico. Ha un sapore di nocciola. In Val Veny crescono il laserpizio e la finocchiella delle alpi. Ma la trovi solo in un determinato metro quadrato. Per tanto tempo ho anche cercato l’imperatoria. Poi, finalmente, l’ho scovata. Perché qui, basta cambiare vallata che varia l’altitudine e muta tutto”.
Flora. Ma anche fauna nei menu “griffati”. Chiocciole by Madame Escargot di Gignod, allevate in altura dalla cooperativa Mont Fallère; cinghiali de La Kiuva di Aosta, cresciuti allo stato brado sino al momento della caccia e macellati secondo un puntuale disciplinare; piccioni e faraone dell’azienda vercellese Moncucco. E poi storioni, trote, salmerini, gamberi di fiume. “Per me tutti gli ingredienti sono di pari importanza. E quando uso il tartufo non faccio certo il verso all’abbondanza, ma al gusto. Spesso la differenza di prezzo non è data dalla materia prima, sia essa un vegetale o una proteina, ma dalla tecnica e dal tempo necessari per trasformarla”, chiarisce Paolo. Intransigente sulla puntualità. “A cena, l’orario che si sceglie va rispettato. Per permettere alla sala di scandire e spiegare per bene il menu”. Anche perché Vadim Vasilevschi, Federica Tomasini, Veronica Scanziani e Giorgio Cortucci (ai vini e alla carta delle acque) sono bravi. E meritano la giusta attenzione.
Il menu che ti mette le ali
Quello che segue è un exemplum del tasting “Jolly”. Un iter catartico. Un antro dantesco in cui par di sentire: lasciate ogni certezza, o voi che entrate. Con la consapevolezza d’una ieratica salvezza per il palato. Un cammino che non è mai uguale a stesso. Ma che conduce a una liberazione da dogmi e sovrastrutture.
Incipit ludico con acqua al mango, kombucha e verbena. Una benedizione per fauci e stomaco. Si soffia sull’imboccatura del sinuoso “narghilè”, si fanno le bolle, si beve e ci si purifica. Dando avvio allo slalom degli amuse bouche: tartelletta con catalana d’astice e pomodoro confit; foglie fritte di topinambur con nocciola rapé; oliva all’ascolana reloaded (fuori, glassa verde di olive; dentro, spumosa coppa di maiale e brunoise di olive); panino fritto con anguilla affumicata e gel di arancia rossa; airbag con crema di barbabietola e caviale Calvisius Tradition; tacos con stracchino di capra alle erbe e finocchiella alpina; e sfera liquida-croccante di ginger ale con estratto di zenzero. Golosi divertissement. Perfetti in tandem con la new “Grande Cuvée Alma non Dosato” by Bellavista. Etichetta verde persiano, chardonnay (per il 90%) e pinot nero, nonché nove annate di vini di riserva. Un Franciacorta moderno, agile e scattante, crudo e nudo, frutto del lavoro di Francesca Moretti e dell’enologo Mattia Vezzola.
Pane al centro. O meglio, pagnottella al lievito madre preziosa di semi e di 36 ore di lievitazione. Al suo fianco: quenelle di burro di montagna. Da spalmare responsabilmente. Per poi fare un salto in un giardino zen giapponese (con tanto di rastrello): terrina di nukazuke, ovvero verdure fermentate in crusca di riso, e dashi in ciotola. Acidità. Umami. Da mordere. Da sorseggiare. Provocazione e comfort. Nel calice: il brillante e minerale Petit Arvine 2018 di Les Crêtes, maison di Aymavilles.
Carota. Che ha perso il cuore ma che ha acquisito un’altra anima. Carota: cotta a 85°C per quattro ore; glassata col suo stesso succo (e un po’ di maracuja); vestita di spezie citriche, foglie e fiori di carota; svuotata e riempita di farinello, erbette, quinoa, uvetta sotto spirito e pinoli tostati. A corredo, cracker-foglioline al cumino. Un monolite arancione. Un totem vegetale che cela la coralità wild della natura.
Finché giunge il disgelo in montagna. Deflagrante piatto-paesaggio che si svela sotto una coltre di neve al pomodoro. “Perché qui la primavera esplode in un battibaleno”, spiega Federica. Quindi? Messata di cervo marinata nel caffè e nel miso, terragne chips di topinambur, insalate, nasturzi ed erbe spontanee.
E dopo il cervo fra le cime, le lumache nel sottobosco. Con caviale di lumaca, finferli, crostini al prezzemolo, spuma di funghi e asperula e rami di champignon. La nuova via delle escargot à la bourguignonne. In ideal tenzone con lo sloveno “Pinot Noir Selekcija" 2014 di Marjan Simčič, dalle palesi nuance di frutta matura.
Un nettare morbido ma persistente, ottimo anche col piccione “viaggiatore”. Nella camera inferiore della “moka” Hario se ne sta il brodo del volatile. In quella superiore salvia, rosmarino e zenzero. Quello che si ottiene è un consommé piacevolmente aromatico. Fiero di allagare una busta di pasta all’uovo contenente una lettera al ragù, preparato con cosce, petto, cuore, fegatini e fondo bruno del piccione. Ad accompagnare: piuma di fontina valdostana e messaggio di buon auspicio.
La costata di cinghiale riconduce a terra. Complici una purea di mirtilli selvatici e un girotondo di sides: bernese ai porcini, pepe rosa e dragoncello; spirale di patata arrosto, polvere di lardo d’Arnad, maionese alla paprika e fiori di aglio orsino; e insalata-aspic di legumi, luppolo sottaceto e scalogno.
Ma dopo la selva arriva un buon picnic in Val Ferret. Anche grazie alla mano talentuosa di Titti Traina. Bouquet di fiori di campo al centro tavola - per ricreare l’atmosfera - e un bel cestino in vimini (foderato di un tessuto a quadretti bianco e rosso) a nascondere una serie di ghiottonerie prêt-à-manger. Pensate per un déjeuner sur l’herbe. Fette biscottate con confettura di ciliegie e ricotta di capra lavorata con lo zucchero; frangipane caldo ai mirtilli wild; fragole, lamponi o altri frutti del momento; ed evanescente barretta-gaufre di cioccolato, nocciole e pasta di nocciole messa in azoto. Utilizzando una tecnica mutuata dal Tickets di Albert Adrià. E ancora: salame di cioccolato (con rum e biscotti homemade); kefir di latte ai lamponi; e mela al quadrato. La renetta valdostana viene infatti svuotata, congelata e riempita con un sorbetto di mela. Ottenuto lavorando il frutto nell’Oc’oo, futuristica “pentola a pressione” coreana che estrae sapori e nutrimenti. Nella bottiglietta, il Pinello: fermentato di pigne lievemente alcolico. “È il nostro limoncello di montagna”, dicono felici Paolo e Titti.
Foto di Paolo Picciotto e di Davide Dutto