Non sono un’associazione. Non sono un club. E men che meno un brand. Loro sono un gruppo di amici volitivi, col pane in mano e un progetto per la testa. Si fanno chiamare PAU: Panificatori Agricoli Urbani. Tenacemente convinti che il bread sia acqua, lievito, farina, terra, cielo. Materia e immaginario. Grano e luce. Memoria ed evoluzione. Tradizione e rivoluzione.
Si sono incontrati per la prima volta lo scorso anno, al Salone del Gusto di Torino. Poi a Taste Firenze e poi ancora alla manifestazione Salumi da Re, all’Antica Corte Pallavicina di Polesine Parmense. Laddove un eccelso culatello chiamava il buon pane all’appello. E così hanno dato il via a un movimento. Nutrito da passione, visione e determinazione. E lo hanno dimostrato anche alla recente edizione milanese di Cibo a Regola d’Arte, l’evento firmato dal Corriere della Sera, ospitato alla Fabbrica del Vapore. La zona bakery è stata un continuo fermento di pensieri, parole e pani. Proprio grazie a loro, i PAU. Rappresentati da sei ambasciatori-portavoci. Anche se loro sono molti di più. Dal nord al sud. Perché il pane non ha limiti, confini, barriere, stereotipi e cliché.
Il pane è narrazione
“Noi? Abbiamo la responsabilità di conoscere tutta la filiera. Dal campo al grano, dal mugnaio alla farina, dall’impasto al forno. Perché noi siamo l’ultimo anello in grado di raccontare una lunghissima storia. La quale deve giungere forte e chiara sino al cliente finale”, spiega Pasquale Polito: classe 1987, radici abruzzesi e di stanza a Bologna. Dove ha fondato - insieme a Davide Sarti e Gregorio Di Agostini - il Forno Brisa. Ormai presente nella Dotta con ben tre botteghe (in via Galliera, in via Castiglione e in via San Felice). Alle quali si è aggiunta una sorella pizzeria: Teglia Paradise Pizza. Con tanto di Spizzeasy a corredo, una factory-privé di arte, musica e design.
Pasquale, Davide e Gregorio. I breaders. Si sono conosciuti al master di Alto apprendistato per panettieri e pizzaioli all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. E non si sono più lasciati. Anzi, si sono replicati. “Ora siamo circa in trenta a lavorare nei nostri locali”, precisa Polito. Che vanta una laurea in geografia. E che ha ben chiaro quale sia il rapporto fra spazio e società. “Certo. Non esiste agricoltura senza città. Ogni campagna è legata alla sua metropoli. Perché è dall’urbe che proviene la richiesta. Ed è nell’urbe che avvengono i cambiamenti. È nel panificio che si materializzano gli scambi e i dialoghi quotidiani. La città è la locomotiva di una filiera virtuosa. Per questo ci chiamiamo PAU, Panificatori Agricoli Urbani”, commenta Pasquale.
Insomma, il pane è narrazione. Il pane è un prodotto agricolo ma anche cittadino. Il pane racconta. Parla di sacrifici, di genio, di ingegno, di legami, di artigiani. “Perché artigiano non vuol dire avere un posto piccolo. Ma significa avere una visione”, continua il giovane breader. Che nei suoi forni bolognesi fa grosse pagnotte. Da un chilo e mezzo. Collettive, conviviali, condivisibili. “Sì grandi, così ci sento tutto un territorio e le persone che lo abitano”. Pane come una trama da svelare. Pane come biodiversità e sostenibilità: agricola, nutrizionale, economica e sociale. Pane come popolazione di semi differenti. Come miscuglio da difendere. Per vederlo evolvere nel tempo, in un naturale processo di adattamento al clima e alla terra. Come sta accadendo a quello coltivato nella pescarese Nocciano, nei campi di proprietà.
Il pane è coltivazione
Davide Longoni ha invece piantato a segale cinque ettari a Chiaravalle. Nel Parco Agricolo Sud di Milano. “In una zona abbandonata e incolta. In una campagna lontana dall’immaginario bucolico, ma che ora stiamo cercando di recuperare. Anche nel suo solido legame con la vicina città”, dichiara mister Longoni. Uno dei founder del gruppo, con Polito e Matteo Piffer del trentino Panificio Moderno.
Segale dunque. “Segale biologica, della varietà dama. Con spighe alte fino a un metro e ottanta centimetri. E che regalano un pane in equilibrio fra dolce, acido e amaro. Ottima in purezza, ma pure aromatizzata con il carvi e con pezzetti di frutta”, puntualizza Davide. Deus ex machina del panificio che porta il suo nome (e cognome) nel capoluogo lombardo: in via Tiraboschi e all’interno del Mercato del Suffragio. Dove i pani sono in taglia maxi. Tondi o lunghi. Perché come scrive sul sito: “Il pane piccolo è per gli uomini soli, in grande formato è per la compagnia”. Pani figli di un’agricoltura che si adatta al paesaggio, senza modificarlo. Pani da assaporare come un calice di vino. Intercettandone l’origine e l’iter di lavorazione. Pani da assaggio. Non per forza da accompagnare a qualcosa ma da gustare per percepire qualcosa. Pani di farro monococco e di tumminia, di perciasacchi e di russello. Non dimenticando il pane integrale delle Madonie. Nel nome della diversità colturale e culturale.
Il pane è relazione
“La nostra fortuna? È quella di poter conoscere bene il grano, i cereali, gli agricoltori e le tecniche. A cui si aggiunge la certezza di seguire una strada che conduce a un nuovo bivio. Da una parte c’è la freccia che torna alla panificazione degli anni Ottanta e Novanta. Fatta di quantità, di abbondanza e di un eccesso dell’offerta. Di tante forme e di tanti formati. Dall’altra c’è l’indicazione per una via rivolta alla qualità, alla trasparenza, alla tracciabilità. Al valore assoluto della materia prima”.
Ha le idee chiarissime Matteo Piffer. Figlio d’arte e fratello di Ivan, col quale guida il Panificio Moderno: sede e lab a Isera e una serie di satelliti a Rovereto (dove spiccano ben quattro negozi) e in centro a Trento. Dove se ne sta l’ultima nata: una bakery contemporanea, con caffetteria e cucina. Scenario del format “Moderno Live - Vignaioli in Panificio”. Per un aperitivo fra sound, food e tasting: tutti i giovedì, sino al 25 luglio.
Un panificio pensato per condividere valori e progetti. Un luogo per spezzare il pane e per nutrirsi d’altre storie. Uno spazio per cercare, sperimentare, creare relazioni. Da qui anche l’idea della “Settimana del Pane”. Per variare day by day. Della serie che se il pane del Terzo Paradiso - con impresso l’armonioso emblema tracciato da Michelangelo Pistoletto - viene proposto il martedì e il venerdì, è quello “Tutto il Grano”, con la farina macinata a pietra Petra 9 di Molino Quaglia, a entrare fra i protagonisti di martedì, giovedì e sabato. Del resto, i Piffer fanno anche parte per prestigioso circuito dei Petra Selected Partners, voluto dal molino estense per premiare e valorizzare l’eccellenza.
Un saper fare che si traduce in un saper coinvolgere il tessuto locale. “Da qui il Pane Isera. Un Pane Comunale dal profondo contenuto autoctono, perché realizzato in sinergia con la vicina cooperativa di solidarietà sociale Gruppo 78. Che può contare sul Mas del Gnac, un maso con mulino dove maciniamo grani lukullus e bologna. Coltivati da due agricoltori della zona. Così andiamo a realizzare un pane fortemente attaccato al senso collettivo della comunità”, spiega Matteo.
Il pane è consapevolezza
“Una volta si andava a bottega. Per rubare il mestiere. Oggi no. Oggi vi è la consapevolezza di una professione. Oggi si è coscienti di quel che si fa. E si sa di poter costruire un prodotto di valore solo conoscendo una ad una tutte le sue parti. Oggi non si può impastare senza porsi prima delle domande. Bisogna ascoltare e dialogare, immaginare e vedere, pensare e parlare. Perché non si cresce e progredisce rimanendo isolati. Non si evolve facendo gli eremiti”, Giovanni Mineo docet.
Consapevolezza e relazione. Giovanni ha ragione. E la conferma viene dal successo di Crosta, aperto in via Bellotti a Milano, col socio Simone Lombardi. Giovanni al pane. Simone alla pizza. Un tandem perfetto, complice la produzione di croissant, torte e dolci. Per un’offerta circolare.
Il pane è libertà
“Sono un avvocato civilista. E facevo l’avvocato. Sempre in giro per l’Italia. Con pochissimo tempo per pensare. Invece il lavoro artigianale ti libera la mente. Ti regala l’opportunità di pensare, mentre metti le mani in pasta. Tant’è che a furia di riflettere ora mi sono venuti i capelli bianchi”. Valeria Messina è ironica, confusa e felice. Fiera d’esser divenuta una panificatrice. Orgogliosa della sua metamorfosi. “Mi sono laureata alla Sapienza di Roma. E ho preso l’abilitazione a Perugia, specializzandomi in diritto di famiglia. Poi per amore sono tornata nella mia terra. A Catania”, racconta.
E proprio nella bella Catania apre, un anno fa, il Forno Biancuccia. “L’intenzione era di chiamare il forno col nome di un grano antico. E parlando con mia suocera ho scoperto il biancuccia. Non ho più avuto dubbi. Anche perché Bianca Buonoconto, la nonna di mio marito, è stata la direttrice della Stazione Consorziale Sperimentale di Granicoltura per la Sicilia di Caltagirone fra gli anni Sessanta e Settanta”.
Un segno del destino. Per un avvocato illuminato dal pane. “Tutta colpa del mio amore per la cucina e della mia attenzione al gusto e alla salute. Cercavo un pane buono, fatto con farine locali, e non lo trovavo. Così ho iniziato a farlo in casa. La notte impastavo. Di giorno sfornavo. All’inizio con risultati fallimentari. Ma poi ho cominciato a viaggiare e a seguire corsi amatoriali. Il mio pane era sempre più richiesto. È diventato collettivo. Le cose si sono messe in modo tale che ci sarebbe voluto più coraggio a rimanere dove stavo”.
E così Valeria fa il pane. Lunedì, mercoledì e venerdì col perciasacchi. Martedì, giovedì e sabato con russello e tumminia. Ma non mancano pani in cassetta con maiorca e segale o maiorca e grano saraceno. Pani di grandi pezzature, che si conservano meglio. “Mi piace pensare di creare qualcosa che nutra gli altri. E poi so bene di non vendere solo un pezzo di pane. Ma di comunicare una passione, una storia, una filiera. Il pane è sacro. Ha qualcosa di mistico. Incarna l’arcaico legame fra l’uomo e la terra”.
Il pane è condivisione
Ma come Valeria anche Stefano Caccavari ha avuto ardore e coraggio. Stefano: calabrese doc, studi di economia aziendale e natali a San Floro, 690 abitanti in provincia di Catanzaro. “I miei avevano un bar. Ci conoscevamo tutti”, racconta. Un borgo tranquillo e sereno, sino alla notizia della possibile costruzione di una discarica. Stefano va all’attacco e dà il via a Orto di Famiglia. “Perché se le persone non fanno nulla il territorio muore”. E invece San Floro rinasce. Prima con dieci orti in affitto, per arrivare a più di 150 coltivatori. Poi? Scatta anche la voglia di far bene il pane, partendo dal recupero del grano antico. “Così, invece di acquistare un Mac, ho investito in un ettaro di grano”. Grano che lui porta a macinare in un mulino a pietra, che presto viene messo in vendita e che, grazie a un’operazione-mobilitazione di crowdfounding su facebook, trova il sostegno per girare, girare e girare ancora.
Nasce il progetto Mulinum. Un mulino social, dei contadini, condiviso dai contadini. Un Mulinum millennial, con tanto di forno e terreni. Una startup agroalimentare di successo, che ha trovato replica pure in Toscana, nella senese Buonconvento, e in Puglia, a Mesagne. Grazie a soci investitori che hanno creduto in un sogno. L'ambizione? Metter radici a Milano. Anche con un punto di formazione. “Io mi metto a disposizione per tutta l’organizzazione”. L’appello è lanciato.
L’obiettivo? Fare un pane come cent’anni fa. “Anzi, meglio. Perché il pane del futuro è ancora più buono di quello di una volta”, precisa Pasquale Polito.
Prima foto in gallery by Pal Hansen per Cibo a Regola d'Arte - Corriere della Sera
Seconda, terza e quarta foto in gallery by H2B Studio
Altre foto by Francesca Tanzini, Elisa Vettori, Nicola Mazzon e Pasquale Buffa