“L’acqua va utilizzata a 90 gradi. La prima va gettata. Poi va versata di nuovo e lasciata per quattro minuti a contatto con le foglie di qi lan”. Sul tè è intransigente Suili Zhou, giovanissima imprenditrice originaria della regione del Guangdong, meglio noto come Canton. Del resto, lo yum cha, ossia il rito di “bere il tè” ha regole ben precise, che vanno rispettate. Sia nel caso in cui la bevanda ambrata venga sorseggiata da sola - magari a inizio pasto - sia nell’ipotesi di un felice matrimonio col dim sum. Altro rituale cinese. Anzi, un vero e proprio stile di cucina - tipico cantonese - che prevede una gran varietà di piatti serviti in piccole porzioni, consumate in tandem col tè. Come un tempo usavano fare, per ristorarsi e rigenerarsi, i viaggiatori che percorrevano l’antica via della seta.
Ancestrali rituali che ritornano, nella loro forma più tradizionale, al MU dimsum, insegna milanese guidata da Suili. Che poi è moglie di Liwei Zhou, al timone del MU Fish di Nova Milanese, dove la proposta orientale è più incline alla contaminazione e alla fusione culturale. Qui, invece, nel Mu più metropolitano, l’offerta si fa più ortodossa e integralista. Cina pura. Presentata in uno spazio arioso e contemporaneo, rivestito di legno. Chiaro e scuro. Orizzontale e verticale. Pronto a conquistare pure il soppalco. Perfetto per una pausa pomeridiana - il locale è aperto tutti i giorni, da mezzogiorno a mezzanotte - o per un aperitivo prima di sedersi a tavola. Immersi nella luce del giorno - pronta a entrare dalle maxi vetrate - oppure tuffati nelle atmosfere soft della sera. Complice un serico senso d’accoglienza.
Ravioli, bao e zampe di gallina
No, gli involtini primavera non ci sono. La carta predilige pietanze autentiche, dando voce a portate meno note al pubblico. Per una carrellata di dim sum che sono la vera specialità dello chef Kin Cheung: nato e cresciuto a Hong Kong, e ormai adottato dal capoluogo lombardo. Che lui delizia con i suoi ravioli. Gli har gau, per esempio: al vapore, in trasparente pasta cristallo e ripieni di gamberi.
Ma in lista vi sono anche i classici shāo mài: di pasta all’uovo, cucinati a vapore e farciti di pollo, funghi e gamberi. Per una summa di umami e delicatezza.
A cui si aggiungono quelli alle verdure, all’astice e tè matcha, alla salsa di Szechuan e al branzino. Verdi, per la presenza degli spinaci.
E se gli shui jiao vantano un ripieno di carne di manzo biologica, non mancano i ravioli farciti con ragù d’anatra piccante e i guo-tie brasati, ripieni di carne bio di maiale, cipollotti e zenzero. Carni che provengono dall’azienda BordonaFarm di Valera Fratta, in provincia di Lodi. Mentre l’anatra viene direttamente dalla Cina e arance e limoni giungono dalla Sicilia: consegnati nel giro di 36 ore dall’azienda Bioinvio di Vittoria, in terra di Ragusa. L’idea? Ricostruire la “filiera corta” delle zone rurali del Paese asiatico. Pur attingendo dal ricco e genuino paniere italiano.
Dim sum che proseguono nella loro sfilata, ritratti nella variegata gamma dei cannelloni. I cosiddetti cheung fun: alle verdure, al manzo, al maiale, al pane fritto cinese e ai gamberi, tipici dell’area di Hong Kong.
Vengono dalla provincia di Szechuan invece le puntine di maiale con soia nera fermentata. Tenerissime e gustose, presentate nei raffinati cestini in bambù.
Mentre sul cucchiaio si esprime l’osmanto egg: un aristocratico uovo al vapore ai sentori di osmanto odoroso e foie gras. Per un boccone davvero fragrante.
E poi ci sono la trippa di manzo e il pollo di perla. Un riso glutinoso al curry, servito in foglia di loto con pollo e gamberetti, originario del sud della Cina. Intanto, avanzano le zampe di gallina: le fèng zhua. Un vero momento feng shui. Della serie, nessuno spigolo per il palato, che incontra morbidezza e rotondità sensoriale.
Da non perdere? Il bao bao, anche in versione noir: panino black al vapore ripieno di maiale bio caramellato. Con preziose note dorate.
Orchidea o libellula?
Da bere? Tè. Se si vuole rispettare il rituale. Cocktail se si ama azzardare. In entrambi i casi c’è una carta dedicata. Una decina i tè cinesi proposti. Dai più leggeri ai più energici. Tutti in bella mostra su uno scaffale della sala ristorante. Per iniziare? È ideale il qi lan, “orchidea rara”, dal sapore tostato e dolce, pronto a virare verso il floreale. “Ma attenzione. A ogni sorso cambia”, precisa Suili. Invitando i commensali alla massima concentrazione nella degustazione. Che contempla pure tè bianco, un tempo riservato ai soli imperatori; long jing, tè verde lavorato in “padella”, dalle nuance di castagna; e tè nero lapsang souchong, affumicato con legno di pino o cedro, dal gusto deciso ma non tannico (al quale possono essere aggiunti boccioli di rosa).
Un tè nero di montagna corposo e determinato è invece lo shui xian, detto anche “tea rock”, per via del terreno roccioso sul quale cresce. Più floreale il tie guan yin, proveniente dalla provincia del Fujian, mentre dallo Yunnan giunge il pu’er shu cha, un tè fermentato rosso. E con i dessert? Meglio lo jin jun mei. Selvatico, ma esclusivo e raffinato, fra accenni di malto, miele e arancia. Ottimo in abbinamento con i dolci (poco dolci) firmati dal pasticcere Lin Yi-Kuan. Vedi la lychee cheesecake, il mochi al mango e la bavarese alle mandorle.
E per chi adora i drink? Ci sono quelli targati da Franco “Tucci” Ponti. “Il sud-est asiatico è il mio pane quotidiano” dice il bartender. Che shakera Oriente e Occidente, non perdendo mai di vista l’equilibrio. Old Shangai: Talisker Sky, caramello al pepe di Szechuan, kumquat e bitter al cioccolato. Roselline Club: gin Beefeater, infuso ai boccioli di rosa, sciroppo di lamponi e succo di limone.
E se il Sakura mixa Tanqueray Ten, Biancosarti, vermouth Lillet Blanc e sale rosa dell’Himalaya, il Thai Bird unisce sale, foglie di kaffir lime, latte di cocco e miele. Mentre il Tango fa danzare cachaça, chutney di mango verde leggermente piccante, pompelmo e lime.
Aperol infuso in lavanda e vaniglia, mezcal Montelobos e vermouth extra dry invece per il Grill. Dal tono rosso fuoco.
E ancora, olio allo shiso, gin Beefeater e vermouth dry per lo Shiso Gibson. Mentre fuori carta vola il Dragonfly: un cocktail sofisticato, leggero e sinuoso come una libellula, servito direttamente dalla teiera in ghisa e versato in una tazzina: rye whiskey lasciato in infusione con i funghi shiitake, vermouth, succo di mandarino e orecchie di giuda caramellate a guarnizione.
Di anatra, astice e anfore
Dim sum, tè e cocktail. Certo. Ma qui si possono assaggiare anche piatti di carne e pesce che escono dagli schemi della cucina dei piccoli bocconi. E la Pecking duck ne è la conferma: anatra alla pechinese con crespelle, salsa e verdure croccanti. Su ordinazione, porzionata persino al tavolo. Come tradizione cinese insegna. Anatra che torna. Pure con i ramen e con la bowl di riso al vapore.
Ma da provare sono anche i gamberi di giada, il branzino al vapore in salsa chong yu e l’astice al pepe rosa, affumicato, su battuto di granchio, gamberetti essiccati e carote. Mentre il maiale Dong Po - soprannome di Su Shi, noto poeta della dinastia Song - viene cotto a bassa temperatura e accompagnato da una salsa piccante.
Pietanze importanti, create anche grazie al contributo dello chef Zhang Qinglong, che affianca Kin in cucina.
La sala è invece orchestrata dal maître Egidio Giovannini, che consiglia i commensali lungo la via della seta. Non trascurando i vini. Preferibilmente bio, naturali e comunque speciali. Come i Franciacorta “Sogno” e “Memoria” di Cà del Vént, oppure il “DosaggioZero Nero” e il “DosaggioZero Rosé” di Andrea Arici. E ancora il “SabbiaGialla”, Ravenna bianco della Cantina San Biagio Vecchio; gli Champagne Larmandier-Bernier “Latitude” e “Longitude”; nonché il georgiano “Rkatsiteli” della maison Pheasant’s Tears, affinato in anfore-otri di argilla interrate chiamate qvevri. Un tipo di vinificazione eletta a Patrimonio dell’Umanità Unesco. Per lo stretto legame con la cultura rurale di un Paese crocevia fra Europa e Asia.