«Imola? È Romagna. Romagna in piena regola. Siamo oltre la sponda orientale del fiume Sillaro. E dunque in terra romagnola», precisa con orgoglio Massimiliano Mascia: classe 1983, alle briglie culinarie del bistellato San Domenico e nipote di due calibri da novanta come Valentino e Natale Marcattilii. Insomma, nessuna mamma, nonna o zia dietro alla creazione di ravioli, cappelletti e tortellini. Bensì uno zio. E che zio!
Fu infatti l’ancor acerbo Valentino a premere start. Correndo dietro agli insegnamenti di Nino Bergese, chiamato alla corte di Gianluigi Morini. Un appassionato di cinema e cucina che, il 7 marzo 1970, diede alla luce un ristorante che avrebbe illuminato la storia dell’Italia a tavola. Sì, Gianluigi volle il giovane Valentino ma pure il maturo Nino, forte di un enorme bagaglio esperienziale. Perché? Perché Nino aveva cucinato per le famiglie dell’aristocrazia e dell’alta borghesia. Perché aveva confezionato la torta di compleanno per Umberto di Savoia. Perché con La Santa genovese aveva conquistato i due astri della Rossa. Perché era Nino Bergese. E Morini puntò su di lui per costruire un ristorante capace di comunicare la nobile tradizione gastronomica del Bel Paese. Non si sbagliò.
Intanto, al fianco di Nino, l’acuto Valentino impara. E dà la sua personale accelerata. Tant’è che il San Domenico presto raggiunge le due stelle Michelin. Mai più spente. Dal lontano 1977. Quarantadue anni or sono. Un’eredità importante per Max Mascia, ora alla regia di un’insegna carica di onori. Ma pure di tanti oneri, attese e aspettative. Del resto, il San Domenico è un’icona, uno spazio materiale e mentale. Nutrito di bellezza, di buon gusto e di arte. Basta guardare le pareti per scorgere opere firmate Alberto Burri, Giuseppe Capogrossi, Piero Dorazio, Mario Schifano, Franco Angeli. Unitamente a quelle di artisti locali come Germano Sartelli. Perché Imola c’è. Grazie a una geolocalizzazione gustativa, oltreché visiva.
“Quello che mi prefiggo è che chi si accomoda a uno dei tavoli del San Domenico possa immediatamente riconoscere di essere anzitutto in Italia, poi in Emilia Romagna e, con un po’ di attenzione, a Imola”, spiega Max. O meglio, scrive nel volume (edito da Minerva, per la collana Ritratti di Gusto) Massimiliano Mascia - Il San Domenico di Imola. Piatti e sogni di un cuoco tra le stelle. Visto che Max è cresciuto fra le stelle. Nella “casa” di famiglia. Respirando sapienza. Ascoltando i consigli degli zii. Sentendo il profumo del pane. E mettendoci del suo. “Io, da ragazzo, volevo fare il calciatore, e precisamente il portiere, ci provai anche, era la mia grande passione oltre alla cucina, poi, semplicemente, feci la mia scelta, basandomi su cosa mi riuscisse meglio, su quale fosse la circostanza in cui pensavo di poter dare il massimo per cercare di eccellere fra le opportunità che avevo a disposizione. La vita è anche questione di opportunità”, svela nel libro.
E Max ha la sua chance. Unitamente a una serie di innate virtù, quali la pacatezza, il rigore, la serietà, il puntiglio e lo sbuzzo. “Sintesi tutta romagnola di fantasia, estro, tecnica, intuito e manualità. Lo sbuzzo è ciò che può fare la differenza portandoti, magari, a mettere insieme una cosa che hai visto a New York con un’altra che hai visto altrove, per farne un qualcosa di nuovo e di buono per te”, si legge nel volume. E Massimiliano di cose ne ha viste e incamerate. Stando accanto a zio Valentino. Studiando all’alberghiero di Castel San Pietro Terme. E inanellando qualche stage in giro per il mondo: dalla Grande Mela alla Parigi di Alain Ducasse, dalla Sicilia all’Umbria di Gianfranco Vissani.
Una preparazione solida quella di Mascia. Che fa e rifà l’uovo in raviolo. Una pietanza simbolo del San Domenico? Molto di più: un cult. Da imitare? Guai. Il piatto è brevettato, con tanto di ® posizionata accanto alla portata in carta. Un po’ come la pizza al vapore di Max Alajmo. La dicitura esatta è infatti: “Uovo in raviolo San Domenico con burro di malga, parmigiano dolce e tartufo di stagione”. Anno di nascita: 1974 (dopo innumerevoli prove da parte di Valentino Marcattilli, assieme al maestro Bergese). Segni particolari: modernissimo. La sua età non la mostra assolutamente. Un piatto eterno, evergreen. Immodificabile perché perfetto. Sfoglia sottile, sottilissima, quasi evanescente. Invisibile sotto una coltre di tartufo e parmigiano. Eppure c’è. E cela un tuorlo liquido. Pronto a fuoriuscire alla sola pressione dei rebbi. Allagando il tutto, complici ricotta e spinaci. La Romagna, racchiusa in uno scrigno. «L’uovo in raviolo è un po’ il test d’ingresso al San Domenico. È nel nostro dna. Ormai lo sanno fare persino i muri», dice lo chef. Che non nasconde i passaggi della ricetta: ben descritti alla pagina 212 del libro.
Ma se l’uovo in raviolo non si tocca, poi ci sono i visionari divertissement emiliano-romagnoli di Max. Tortellini fritti, serviti in un conetto, alla stregua di uno street food. Tortellini classici, ovvio, ma tuffati in olio di semi, anziché nel brodo. Affinché facciano crunch. Come le chips. E poi bon bon di parmigiano e mousse di mortadella. Ossia un bomboloni salati in taglia extra small.
Per non parlare del crudo di ricciola al sale di Cervia - Romagna imperat - con gel di arancia e di yuzu, orto di primavera (taccole, carote, cipolla, ravanelli e germogli di piselli) e gin nebulizzato. Come un profumo. Come un gin tonic da mangiare: fragrante, agrumato, energico, giovane e vitale.
Una carta di primavera vigorosa e volitiva quella del ristorante. Che annuncia pure petto e coscia di quaglia arrostiti, salsa di carote all’anice stellato e saba di sangiovese, ovvero il mosto cotto e concentrato del celeberrimo nettare locale. E ancora, gnocchi di patata rossa di Imola con ragù di crostacei al dragoncello; tortellini con crema di piselli al basilico e prosciutto di Parma; riso mantecato all’olio extravergine con spugnole dell’Appennino e fave novelle; spaghetti di Gragnano, mazzancolle dell'Adriatico, calamari velo e polpa di ricci di mare; lombetto di agnello nostrano, crema di piselli, carote gialle e salsa al timo limonato; e trancio di branzino, insalata di asparagi cotti e crudi e vongole veraci. Terra e acqua. Perché la Romagna è campagnola, collinare e rurale, ma pure marina.
E poi c’è la pasticceria, che gode dell’expertise del pastry chef Giovanni Mattina. Fra i dessert? Il cremoso alla mandorla e infuso fresco al rabarbaro. I cui cubetti vengono trattati sottovuoto, a bassa temperatura, in acqua e zucchero. Mentre l’acqua di cottura viene recuperata, addizionata a una vodka agli agrumi e versata sul dolce. Che si esprime in una verticale alla mandorla. Pronta a diventare biscotto, cremoso e mousse-biancomangiare. Con qualche meringa a completare. E a regalare un accenno croccante.
E la crêpe suzette? Voilà, realizzata live, alla lampada. E poi la torta fiorentina “Nino Bergese” in salsa profiterole e sorbetto di pere williams; nonché il soufflè all'arancia e Grand Marnier con gelato alla crema. Perché certi must devono restare. Così come non mancano i menu degustazione, fra i quali spicca il “Mercoledì 70”: sei portate a 100 euro, bevande incluse. Solo al mercoledì, solo su prenotazione e solo per i nati dal 1970 in avanti.
Un luogo dall’eterna giovinezza il San Domenico. La cui sala è affidata a Natale, fratello di Valentino, che sta ancora in cucina con Massimiliano. Mentre le chiavi della cantina sono nelle mani del sommelier Francesco Cioria. Una cantina monumentale, costruita oltre cinquecento anni fa dai frati domenicani e oggi superbo caveau, custode di migliaia di etichette di vini (e distillati). Grand cru e grandi annate, veri miti dell’enologia nazionale e globale. Da sorseggiare anche in un tavolo speciale: all’interno della cave.
Il San Domenico di Imola fa parte de Le Soste, dei Jeunes Restaurateurs, dell’associazione regionale CheftoChef e della Nazionale Italiana Ristoratori. Certo. Dopotutto a Max non sarebbe dispiaciuto fare il calciatore.
Foto dei divertimenti emiliano-romagnoli e del cremoso alla mandorla e infuso fresco al rabarbaro by OnStageStudio