“Io sono nato e cresciuto qua. Dove vige il silenzio. E dove il tempo è più lento. Per questo desideravo tornare. E sono tornato”, racconta felice Lorenzo Cantoni. Annata 1987, testa sulle spalle, spalle con le ali e piedi per terra. Anzi, radici profondamente affondate nella terra umbra. Quella di Umbertiade, in provincia di Perugia. “Ho frequentato l’alberghiero. Prima ad Assisi e poi a Città di Castello. E già allora il mio idolo era Tano Simonato. Poi ho lavorato per ben sette anni all’hotel Negresco Riviera di Cattolica. È lì che ho imparato ad apprezzare e a preparare il pesce”, continua Lorenzo. Che poi ha la fortuna di conoscere Tano e di affiancarlo nei suoi illuminati progetti. Prima, all’Acquada di via Eugenio Villoresi, al fianco di Sara Preceruti; poi, nella nuova avventura al Relais Il Canalicchio, nell’ubertosa frazione di Collazzone. Sempre in landa perugina.
“In questo progetto credo moltissimo. Tanto da metterci il nome”, precisa Lorenzo. Che ha preso le redini del Lorenzo Cantoni al Canalicchio by Tano Simonato. Chef stellato che, con grande generosità, fa un passo indietro e attesta la sua presenza senza interferenza. Lasciando grande libertà decisionale alla squadra di Cantoni, che accanto ha Gabriele Mattiacci, Riccardo Arrigoni e Ornela Lyte. Giovanissimi ma decisamente sul pezzo. Concentrati nel portare avanti una cucina vera e concreta, fatta di materia e di sentimento. Di tecnica e di passione. Di terra e di acqua. Di mare e di cielo. Una cucina capace di mettere in connessione gli elementi: pesci e carni, crostacei e volatili, memoria e futuro, ricordi e azzardi. Contaminando e integrando il qui ed ora con il là e il dopodomani. “Io faccio una cucina fusion”, dichiara Lorenzo. Che mette in infusione la sua Umbria con il Mediterraneo e l’Oriente. Ecco, forse qui il metateismo di Tano riesce ad esplodere, assumendo una connotazione mistica. E l’ascetico contesto umbro concorre ad amplificare l’esperienza.
Certo, perché il ristorante Lorenzo-Tano è incastonato in uno scenario ameno e bucolico. Su una collina (quella del Canalicchio per l’appunto), a seicento metri di altezza e dentro un borgo medievale sublimato in relais. “Noi siamo di Roma e papà cercava un posto in campagna. Così, quando vide questo, se ne innamorò immediatamente”, racconta Simone Setter, figlio di quel visionario Antonio che, agli inizi degli anni Novanta dà avvio all’acquisto - abitazione dopo abitazione - e alla sapiente e coerente ristrutturazione del borgo. Per trasformarlo in un albergo diffuso. “Sono stati quattro anni di lavoro intenso. E tantissimi dettagli sono stati sistemati in corso d’opera”, svela il geometra Stefano Cascianelli. Mentre indica un antico torchio in legno scuro. “Bisogna pensare che un tempo, in paese, vi erano addirittura sei frantoi”. E anche la grande macina in pietra posizionata nella hall conferma. L’attenta direttrice Francesca Raffaele la fa notare con orgoglio.
Pietra, dunque. E poi mattoni, tessuti, travi e soffitti in legno, pavimenti in cotto. Ruvido e liscio. Impreziosito da veri e propri camei, realizzati con le celebri maioliche di Deruta, precisamente dell’azienda Grazia. Mentre i tavolini in terrazza sono della manifattura Domiziani, pensati per resistere al sole, alla pioggia e al vento. Che qui fa sentire la sua piacevole carezza.
Un relais nutrito dall’incanto. Da vicoli e da scale. Da camere “sparse”, da appartamenti confortevoli (raccolti nella zona country), da due piscine, da salette e da salotti-belvedere, e da una terrazza panoramica che più panoramica non si può (con tanto di melograno secolare, datato 1750). Un balcone sull’Umbria, su un mare di verde e sugli ulivi. Sì, perché qui l’ulivo è un’icona e un iconema. Così come l’olio extravergine d’oliva resta un must. Un’altra cifra stilistica di Simonato, ovvio. Ma pure un fortissimo simbolo del territorio. “Noi prepariamo addirittura un pane dedicato esclusivamente all’assaggio dell’olio. Ben poroso, in modo che assorba bene. E lo serviamo a tavola come benvenuto”, precisa in sala la brava Alessia Roscini. Facendo focus su un rituale extravergine che dà l’avvio al pranzo o alla cena. Arricchita anche da altre creature lievitate (focaccine, treccine e panini integrali) by Riccardo. Cuor della panificazione del relais (incluse le torte e i soffici ciambelloni della colazione).
Olio nel piattino. Olio a completare il piatto. Sempre. O quasi. Olio persino per mantecare il risotto. “Il risotto all’acqua di mare con capasanta scaloppata, infusione di barbabietola e bisque di scampi io lo manteco con un velluto di patate e olio extravergine. Il Manso del Frantoio Filippi”, puntualizza lo chef. Tracciando il profilo di un grande blend di moraiolo, leccino, frantoio e San Felice, prodotto dalla maison di Giano dell’Umbria.
“Invece qui preferisco il monocultivar di dolce agogia del frantoio CM - Centumbrie, che gode del microclima del Lago Trasimeno”, spiega Lorenzo. Mentre descrive una pietanza in bilico fra Umbria e Thailandia: crocchetta di ceci e patate di Colfiorito, crema di fave e salsa all’aglio nero. Un dolce, pardon salato Stilnovo, valorizzato da un olio superbo, figlio di un’oliva già apprezzata dagli Etruschi. E trasformata in un extravergine esclusivo. Come eccellenti sono gli altri oli della collection di questa maison di ultima generazione. Attualissima ma rispettosa dei valori della tradizione. Una realtà in continuo divenire. Che fa olio, non dimenticando i casali per l’accoglienza, l’orto, la coltivazione dei legumi e l’allevamento di animali, nella fattoria Liberalepre. Nel nome della sostenibilità e del massimo rispetto per l’ambiente.
Così come fa Cantoni. Che esalta il paesaggio amplificandolo in assaggi che parlano di viaggi, esperienze, emozioni. Un’Umbria giovane, volitiva e dinamica la sua. Che osserva il panorama, scollinando e andando oltre l’orizzonte. Che punta i riflettori sul sedano nero di Trevi (un Presidio Slow Food), sposandolo con una tartare di gamberi viola al profumo di lime, cialda di barbabietola e nero di seppia, e semi tostati di girasole. Gamberi tuffati non nell’azzurro, ma nello smeraldo. Oppure? Incorniciati da un cubo di patate e accostati all’agnello: filetto e tartare, cotto e crudo. Complici tartufo di Pietralunga, fondo di cottura e miele di Montecorona.
Lorenzo ama il miele. Al punto da legarlo anche alla quaglia. Uno dei piatti di punta del new menu. Quaglia alla terza: rollè ripieno di quinto quarto (della quaglia); petto scottato e caramellato; coscia farcita di caprino. E poi vellutata di carote e peperoncino, biete, zucchine, filetti di pomodoro, morchelle e olivello spinoso. Un piatto medievale e modernissimo. “Ho eletto a protagonista la quaglia per dar luce a un animale da cortile poco usato”, puntualizza Cantoni. Che non tradisce il piccione. Pescando una ricetta tipica del Folignate per catapultarla in un’altra dimensione. Voilà il petto arrosto, il bonbon di coscia avvolto da guanciale e olive, e la patata schiacciata al rosmarino con il quinto quarto del maiale (orecchie, fegato, polmone, cuore). Maiale che torna. Nella Pancia H24. Lasciata marinare in zucchero, sale e spumante; cotta a bassa temperatura per un giorno; abbattuta e rigenerata. Per esser croccantissima. In tandem con patata, carciofo e liquirizia. “Insomma, il menu di mia nonna Gianna. Ma in chiave attuale”.
Una cucina rock. Ma non in bianco e nero. Bensì coloratissima. “Come colorata è la mia vita. Tanto tempo fa un giornalista disse che facevo una cucina da Arancia Meccanica. Troppo scura e cupa. Così da allora ho deciso di metterci tanto, tanto colore”. Il baccalà alla perugina reloaded gli dà ragione. Carpaccio di baccalà Rafols, quenelle di olive verdi ascolane, pomodorino bianco confit, polvere di pane aromatizzato e salsa alla fiorentina. Sintesi concentratissima di pomodoro, olive e uvetta. A rammentar la versione in umido della tradizione.
Stimolanti le nuove pietanze. Che giocano con le consistenze, come nella caprese liquida e crunch, tra sferificazioni di pomodoro e burrata, insalatine, erbe, fiori e salsa di piselli. Che emulano la pizza, grazie a un crumble che sa di Margherita, battuto di gamberi rossi, spuntoni di burrata e aria di mare. Che elogiano Elena e l’antica Grecia, in un unconventional “minestrone” di verdure. E che sognano l’Oriente. Tra filetto di tonno tataki, marinato alla soia e avvolto da semi di papavero e dumpling trasparenti ripieni di salsa alla vecchia norcina (con ricotta, lime, salsiccia e pepe), soia e miele d’acacia. Per rendere onore al rito dei dim sum, ma seguendo lo spirito umbro.
Nuvoloso bignè all’extravergine e crema pasticcera come pre dessert. E poi? Terra. Che cade da un vaso di cioccolato al latte, incarnandosi in un un crumble al Guanaja di Valrhona, virtuoso di margheritine di cioccolato, fragole, lamponi, more e ribes. Frutti di bosco che si presentano anche nel Phatos, insieme a un parfait di fragole, olivello spinoso e tagliatelle di pasta fillo. In modo da formare un nido. Simbolo di rinascita e di speranza. Un dolce coinvolgente, che per l’autunno inanella nocciole, cioccolato e frutta secca. In abbinata? Un rubino-violaceo Montefalco Sagrantino Passito firmato Scacciadiavoli, azienda che sorprende anche col suo Rosé, vibrante e floreale metodo classico sempre a base di sagrantino.
Una wine list interessante quella del ristorante, che mette in carta anche una cantina come Mevante: che ha sede a Bevagna, che è guidata dai fratelli Paolo e Antonella Presciutti e che vanta vigneti esposti a est. Verso il Levante dell’antica Mevagna (da cui Mevante). Da provare: il Birbantéo, trebbiano spoletino dalle sfumature avvolgenti e delicate; e il Montefalco Sagrantino, dalle note speziate e balsamiche. Senza dimenticare di scrutare la qualità pure oltreconfine. Fra le etichette, infatti, anche il magnifico Pinot Nero altoatesino griffato Elena Walch, nonché l’agrumato e minerale Offida Pecorino Io sono Gaia delle Caniette, azienda agricola di Ripatransone, in provincia di Ascoli Piceno.
Ma non finisce qui. A osservar bene la bottigliera, nella suggestiva bar zone del relais, spicca lui: l’Amaro Viparo, liquore d’erbe e radici dal tono digestivo, ideato (nel lontano 1912, in piena Belle Époque) da Metello Morganti, lo speziale fondatore della storica Farmacia Morganti di Terni. Un amaro corroborante, che deve il suo nome alla locuzione latina vis pario, “genero forza”. Perfetto a fine pasto. Oppure all’inizio. In un buon cocktail. “In un tumbler basso aggiungo tonica, lime e due cubetti di ghiaccio. Giusto per ricordare il modo in cui si serve un amaro”, spiega il bartender Giulio Covarino. Anche questa è Umbria. Giovane, scattante, contemporanea.