“Qui tutti noi abbiamo una gran voglia di fare, crescere, imparare e guardare avanti”. Parla in maniera vera, sincera, propositiva e viscerale Marco. Il maggiore dei Ricciardella bros: poker tutto al maschile che inanella pure Alessandro, Giovanni e Simone. Così, in ordine di apparizione nella vita e nella famiglia creata da Vittoria e Giuseppe: lucani (lei di Bella, lui di Lavello, entrambe cittadine potentine) e capostipiti di Cascina Vittoria. Intitolata alla mamma dei “quattro moschettieri”.
“Questa cascina risale al 1870. Non aveva neppure un nome. Vedi, dove ci sono gli archi, un tempo venivano parcheggiati i trattori. Mentre là sopra, dove ora c’è la sala mansarda del ristorante, vi era il fienile”, continua Marco: classe 1980, un impiego in banca e un amore infinito per una realtà che lui ha plasmato insieme al papà. A Rognano: in campagna, ma appena fuori città. In quella terra di mezzo fra Milano e Pavia che si avvicina più alla prima che alla seconda. “Questo è davvero il mio primo figlio. La cascina l’abbiamo ristrutturata con infiniti sacrifici e tanta passione. Grazie anche al progetto dell’architetto Edoardo Germani. Infatti l’acquistammo nel 2003. E ci abbiamo lavorato alacremente fino all’apertura: il 20 gennaio 2010”, continua lui. Fiero dei primi dieci anni di attività di un’insegna che sarebbe davvero riduttivo definire cascina. E men che meno agriturismo.
Sì è vero, nell’aia ci sono le galline, le anatre e le oche. Ci sono le due cavalle: Diana e Lola (che ora Marco vorrebbe dare in affido a qualche onlus attiva nella pet terapy). E c’è pure l’orto, il regno di Giuseppe. Ma Cascina Vittoria è un ristorante a tutti gli effetti. Anzi, un grande ristorante. Basta entrare per capire. E per notare il look tutto nuovo. Raffinato, color cioccolato e frutto di un recupero accurato. Cui ha concorso l’occhio e il tocco di un interior designer come Filippo Mori. “Le sedie in faggio erano troppo belle, solide e comode. Allora abbiamo pensato di tenerle, rinvigorendole con un abito chic. Poi abbiamo inserito le specchiere e i tavoli in abete. Tondi. Per favorire il dialogo, la comunicazione e la condivisione. Abbiamo chiesto a un artigiano di realizzare un armadio su misura, affinché ci fosse un capiente guardaroba dedicato agli ospiti. E abbiamo ripescato una trave in rovere di duecento anni. Era là, abbandonata nel pollaio. Ma è stata subito trasformata nella base per moderne abat-jour”, spiega il maggiore dei fratelli. Che mi mostra il bagno. “Anche a lui abbiamo concesso una nuova vita, rivestendolo di maioliche artigianali e scaldandolo a dovere. Grazie a un tubo in metallo che prende il calore direttamente dalla stufa a pellet posizionata in sala”. Nel segno di un saggio recycling e della massima sostenibilità energetica.
E nella comfort zone della mansarda la filosofia non cambia. Fra il crepitar del fuoco nel camino e un ambiente intimo e riservato. In perfetto equilibrio fra passato e presente. Se infatti il poderoso sottotetto in rovere ha preso il posto delle antiche tavelle in cotto (utilizzate per realizzare il pavimento della sala al pianterreno) e se mensole e davanzali sono stati plasmati con i vecchi gradini in granito, le lampade “Olivia” by Zafferano regalano un’allure contemporanea ai tavoli. Non tradendo la consecutio temporum fra ieri, oggi e domani. Fra sotto e sopra. Fuori e dentro. Eleganza e ruralità.
“Certo, noi abbiamo la ruralità nel dna. Vantiamo origini contadine, radicate nella terra della Basilicata. Io e Giovanni imparammo a fare gli strascinati grazie a nonna Stella. Lei ci ha sempre insegnato tanto”, racconta Marco. Fierissimo delle sue origini. Felicissimo di aver avuto una cometa da seguire. E lei, Stella, mamma di Vittoria, li ripaga con affetto: “Il panettone lo mangio volentieri perché lo prepara Giovanni”. Classe 1991, una formazione all’alberghiero di Pavia e un talento infinito. Uno chef completo. Cuoco, lievitista e pasticcere. Merito degli insegnamenti di Antonino Cannavacciuolo, di Davide Oldani, di Rolando e Francesca Morandin. Merito di una palese attitudine per la cucina. Merito della caparbietà. Merito di un’innegabile coerenza.
Sì, c’è un’assoluta coerenza nella cucina di Giovanni. Che shakera tradizione e trasgressione. Tecnica e passione. Leggerezza e concretezza. Materia e immaginario. Dettaglio e circolarità. Ricercatezza e sostenibilità. In primis nel privilegiare piccoli produttori e nell’utilizzare tutti gli ingredienti che giungono dall’aia e dall’orto. “Sono io ad occuparmi di polli, galli, galline, capponi, anatre e oche. E sono sempre io a seguire l’orto. Coltivo fave, piselli, cipolle, spinaci, zucchine, zucche, melanzane. Nutrendo il terreno in maniera naturale. L’erba per esempio, quando raggiunge una certa altezza, non solo fa ombra, ma fa pure da concime. Non è infestante. E l’ortica? È ancor meglio del fertilizzante. Ha un elevato potere antiossidante e tiene lontano gli insetti. Poi ho piantato anche molti alberi da frutto che ci danno pere, mele, mele cotogne, albicocche, pesche, ciliegie. Ho persino cachi secolari”, precisa papà Giuseppe.
Intanto, la millefoglie di melanzana è diventata un must. “È un piatto pioniere. L’ho in carta dal 2013. L’idea mi è venuta assaggiando la cipolla caramellata al D’O. Ne preparo circa 400 porzioni a settimana. E la propongo in tre taglie: large per chi ordina alla carta, medium per il menu degustazione e small per il tasting Identità. Che racconta quello che sono in diverse portate”, svela Gio, il motore della cucina, affiancato da Jacopo Prescenzo. “Lei è una melanzana orgogliosa di essere fritta. Anzi, io uso il Belfritto di Petra”, continua lo chef. Che completa l’iconico piatto con il parmigiano in tre consistenze, in tre stagionature e in tre temperature: salsa calda al parmigiano di 16-18 mesi; gelato al parmigiano di 24 mesi; cialdina (a temperatura ambiente) di parmigiano di 28-30 mesi. Da assaporare rigorosamente col cucchiaio.
Con le mani va invece presa la focaccia. Sofficissima. Preparata con pasta madre e farine Petra 3, Petra Evolutiva e Petra 9 di Molino Quaglia. “E ci metto anche un 5% di farina di grano tenero germinato di tipo 1”, puntualizza Giovanni. Che mette a punto anche friabili grissini e un pane fragrante. O meglio, una pagnotta. Nutrita da Petra Evolutiva, farina di farro monococco bio, Petra 1 e un po’ di integrale Petra 9. Cuocendo sempre il tutto nel forno a legna. “Che attenzione non è una cottura, ma un vero e proprio lavoro”, precisa lui.
Mentre suo padre ribadisce: “Per il forno sono perfetti i legni di carpino e faggio. Mentre per il braciere sono ideali l’ulivo e la quercia”, facendo riferimento alla brace posizionata in the kitchen. Dove finiscono le carni, fatte frollare per almeno 30 giorni: dalla fiorentina alla costata di scottona, passando per il wagyu altoatesino (di Stefan Rottensteiner, allevatore dell’altopiano del Renon), gli arrosticini di pecora e il piccione. Se non dopo aver fatto un tuffo a 60°C. “Scelgo solo piccioni femmine. Livornesi. Cannavacciuolo un giorno mi disse: il piccione è un piatto della maturità. Per questo finora non me l’ero sentita di metterlo in carta”, continua il giovane cuoco. Che finisce la tenera pietanza con una salsa di carote viola e biete all’aglio, olio e aceto.
Coerenza. “Noi cerchiamo di fare una cucina che abbia un senso. Ogni piatto non deve essere un numero. Non deve essere messo lì a caso. Deve avere un perché, una sua personalità. Io non corro. In un anno posso aggiungere anche solo due o tre pietanze. E appena le inserisco? Penso già a come migliorarle”, racconta chef Ricciardella. Che intanto sforna la pizza. Una soltanto. “Perché questo è un ristorante, non una pizzeria. E io gli impasti e i condimenti li ragiono da cuoco: una fettina di mozzarella di bufala per spicchio e pomodoro San Marzano appena passato”, dice lui. Mentre apre il tasting “Identità” proprio con un triangolo di pizza. Cotta in forno a legna per 4-5 minuti a 320°C e ben alveolata. “Sì, Giovanni vive per l’alveolo”, ribadisce Marco. Ricordando che il fratello prepara in casa anche il pane dell’hamburger: con lievito madre, latte, burro belga, Petra 3, Petra 9 e germinato di grano tenero.
Una cucina concreta ma moderna e scattante quella di Giovanni. Che va con sicurezza per terra e per mare. Ecco allora il cotechino cremonese del Salumificio Santini cotto nella verza dell’orto, jus d’arrosto (un fondo bruno fatto con le ossa del maiale) e spuma d’agrumi (arancia, limone e lime). Inno alla sapidità, all’umami e alla freschezza. Ed ecco anche il "Ricordo del gambero in salsa cocktail". Un piatto millennial, minimale e mediterraneo. Cui concorrono i gamberi, lasciati marinare per un giorno in sale, pepe e limoni siciliani; una delicata salsa gialla al mango e lime; e una salsa rosa egg free, figlia di una bisque ottenuta a partire dalla testa del crostaceo e poi arricchita da un ketchup homemade. Mentre il carapace (essiccato a 70°C per 36 ore) si traduce in polvere. Per una leccornia di gran classe. Estroversa ed elegante.
“Questo è invece il mio elogio della zucca. La cuocio sempre nel forno a legna, la spolpo, la mixo con un filo d’olio e la sublimo in conserva. Mettendola nei barattoli. Così da poterla utilizzare per parecchi mesi. Anche per altre ricette, come vellutate, ravioli, chips e torte”, continua Gio, presentando il novarese Riso Buono mantecato con la purea di zucca. Per chiosare il tutto con salsa al gorgonzola piccante Arioli e polvere di liquirizia calabrese.
“Qui invece ho voluto convertire un risotto in pasta fresca, omaggiando Milano. Perché io sono nato alla clinica Mangiagalli”, svela lo chef. Che propone la sua crasi piemontese-milanese: plin (realizzati con la GranPasta di Petra e ripieni di midollo, ossobuco, cipolla e parmigiano) nappati con una vera e propria mantecatura, ricreata grazie a un’emulsione di burro, olio, acqua amidata, fecola di patate e zafferano di Chiara Comaschi. Produttrice dell’Oltrepò Pavese. Un piatto vincente e vincitore: dell’oro al Festival degli Chef 2019, all’interno dalla rassegna Sanremo con Gusto.
Al contrario, gli spaghetti sono una new entry. Rigorosamente fatti in casa, essiccati davanti al camino, trafilati al bronzo e lì a rammentare il crostino al burro e acciughe tanto amato da Giovanni. Conditi come sono con burro, colatura di alici by Acquapazza e polvere di peperone crusco. “A Bella, il paese di mamma Vittoria, i peperoni rossi li appendono alle finestre e alle porte. Per farli asciugare al sole dell’estate”, racconta il cuoco. Che concentra il sud in un primo piatto sorprendente.
Tanto il nord fa il suo ritorno. Condensato nel bollito misto elevato alla seconda. Una vivanda invernale? Non proprio. Giovanni riesce a destagionalizzare, alleggerire e ringiovanire il “lesso”. I cui tagli (lingua, testina, muscolo e cotechino) vengono prima fatti bollire separatamente e lasciati riposare nei loro brodi per una notte. Per poi venir porzionati e messi sottovuoto. In modo da esser rigenerati live al momento dell’ordinazione. Un bollito al quadrato: servito tiepido, a cubotti, coperto da una salsa smeraldina, preparata con tutte le verdure green dell’orto.
Evanescente il dessert (ottimo anche come pre dessert). Un panna cotta fake, tutt'altro che “budinosa”, bensì vaporosa. Con salsa alla caramella mou e ombretto di lamponi e ribes. A concedere una nuance di acidità. E ad anticipare l’arrivo del panettone, arioso fratello di pizza, focaccia e pane. Messo a segno con le farine Panettone e Petra Evolutiva, e prezioso di miele millefiori, della vaniglia di Tahiti, dei canditi di Mauro Morandin, nonché delle uova di galline, oche e anatre. Che vanno a nutrire pure la crema che lo accompagna. “Il panettone lo faccio tutto l’anno. Anche sotto forma di bauletto. Fermo la produzione solo nel periodo della colomba. Per non disorientare i clienti”, spiega lo chef. Mentre col caffè presenta i suoi biscottini, realizzati con Petra 5. E sempre cotti nel forno a legna. “Se li metto più a destra risultano più chiari, se li posiziono più a sinistra mi vengono più coloriti”, dice il puntiglioso Gio.
Alla Cascina Vittoria nulla è dato per scontato. Men che meno la carta dei vini. “Cerco di dare visibilità ai vini naturali, alle cantine più piccole e a quelle famiglie che lavorano bene e col cuore”, rivela Marco. Versando il metodo classico dell’Oltrepò - a tutto pinot nero - della Tenuta La Costa e il Montepulciano d’Abruzzo “AnimaErrante”, un super bio dell’azienda agricola Di Cato, a Vittorito, nell’Aquilano. “Ma ho in carta anche le etichette bolgheresi di Michele Satta”, aggiunge fiero Marco. Affiancato in sala dal factotum Alessandro (millesimo ’82) e da Simone (annata ’98).
Progetti prossimi venturi? Valorizzare l’ampio cortile sul quale si affaccia il ristorante. E recuperare il portico adiacente, trasformandolo in un funzionale laboratorio per Giovanni e in qualche camera per gli ospiti. L’ovetto fresco a colazione è assicurato.