Empatia come sintonia. Fra sala e cucina; chef e patron; tradizione ed evoluzione; padri, madri, figli e fratelli, uniti nella medesima prospettiva. Anche di questo si è parlato a PizzaUp, il simposio tecnico organizzato ogni anno da Petra - Molino Quaglia, nell’headquarter di Vighizzolo d’Este. Ma esiste anche un’altra possibile empatia: quella fra cuoco e brand. È quel che accade fra Vito Mollica e il Four Seasons di Firenze. Una fulgida personalità al cospetto di una griffe illustre. Due forti identità in assoluta sinergia. Perché l’una aiuta l’altra, senza perdere la propria specificità. E poi? Vi è l’empatia intesa come perfetta sintonizzazione sulla frequenza di un territorio. Anzi, tanti territori. Da dove sono giunti i protagonisti di un’edizione che ha lanciato gli ormeggi oltre la pizza.
Identità, fiducia, rispetto, riciclo
Torino. Cannavacciuolo Bistrot. Un’insegna che porta inciso il nome del grande chef, pur riconoscendo il talento del resident Nicola Somma. Baciato pure dalla stella Michelin. «Sono originario di Gragnano. E all’età di 24 anni sono entrato alla corte di Villa Crespi. Un traguardo personale. Ma anche un punto di partenza. Perché Antonino è molto esigente, ma dà fiducia alle persone. Non le ostacola», afferma Nicola. Che, dopo tre anni in Villa, si guadagna l’assolo nel bistrot inaugurato accanto alla Gran Madre.
Il segreto del successo? Selezionare materie prime comuni a tutti i locali (c’è anche l’insegna di Novara, altra stella della Rossa), creando un fil rouge, per poi lasciare libertà d’espressione agli chef. «Ovvio, quando realizzo un piatto lo faccio assaggiare ad Antonino, perché credo pienamente in lui. Solo un argomento non affrontiamo mai: il calcio. Io tifo Juve e lui Napoli», spiega Nicola. Che, intanto, pensa a un piatto traducibile in pizza. Fra crema di cime di rapa (impreziosita dalla colatura di alici), cimette sbollentate (arricchite da sale marino integrale di Cervia), burrata liquida e gamberi rossi di Mazara del Vallo. «Spesso le teste dei gamberi le trasformo in chips, facendole essiccare per poi friggerle. Oppure le passo in una centrifuga, ottenendo un succo concentrato che utilizzo nell’impasto della pasta. Ma lo si potrebbe usare anche nell’impasto di una bella montanara». Del resto, anche il riciclo è una forma di empatia costruttiva.
Vicino e lontano. Italia, Russia, Messico, Brasile
«Io sono un moscovita innamorato dell’Italia”, dice Nikita Sergeev, giovane capitano de L’Arcade di Porto San Giorgio. Arrivato nella Penisola 18 anni fa, con i genitori. Inanellando Roma, la Puglia e la cittadina in provincia di Fermo. «Lì avevamo degli amici che producevano scarpe. E scoprimmo quanto si stesse bene al mare», svela Nikita. Poi? Il ritorno in patria, le lezioni d’italiano, il corso di laurea in scienze politiche all’università di Mosca e di nuovo l’Italia, Alma e l’attrazione fatale per il riso, oro e zafferano di Gualtiero Marchesi.
«Non ho mai chiesto la cittadinanza, ma ho aperto L’Arcade», dice fierissimo. Anche di aver fatto tutto da solo. «Non ho mai avuto un mental coach. Ho solo un grafico e un maître che mi fa pure da pr. E sui social posto foto scattate al momento. Mi piace essere vero. Mi piace mettere la faccia in quello che faccio», prosegue il grintoso Sergeev. «Io penso sempre con un palato italiano, ma la mia cucina non è italiana e neppure russa. È contaminata. Sono fortunato ad avere due tradizioni in me». Empatia, questione di empatia fra terra natìa e terra d’adozione. Fra cuore di agnello e brodo di grano; cervo e cozze; tartare di manzo e ricci di mare; brodo di pollo arrosto e coquillage.
E poi c’è chi è legatissimo al proprio Paese. Tanto da portare in cucina i suoi vessilli. È il caso di Luis Valle. Che, prima in un baracchino al Mercado de San Juan e ora nel centro di Città del Messico (in un locale con 200 posti a sedere), diffonde il verbo del suo Don Vergas, elargendo mariscos del mar di Sinaloa. «In sala abbiamo tredici persone. Prima aprivamo solo nel weekend ma ora lavoreremo tutti i giorni», continua Luis. Che prepara un ceviche de pescado blanco (branzino), con succo di limone, cipolla, cetrioli, pomodori, sale grosso, pepe e peperoncino selvatico chiltepin.
E ancora c’è Roberta Julião Catão che a San Paolo ha aperto il suo lab: Da Feira ao Baile. Dove propone torte dolci e salate, terrine, insalate e i suoi celebri paõ de queijo. I soffici panini al formaggio a base di farina di manioca. Facendo tutto a mano, dall’impasto alla formatura delle palline. «I paõ de queijo devono risultare morbidi e umidi», puntualizza l’eclettica pastry chef. Che con coraggio sta portando in Brasile abitudini e ingredienti endemici. Dal goloso brigadeiro alla goiabada, a base del frutto guava. In una terra sudamericana dove i dolci della cultura portoghese avevano sempre avuto la supremazia.
Non di sole ricette vive il cuoco
«Ora è chiaro. È necessario andare oltre la pizza, oltre il piatto. La comunicazione non può più essere solo didascalica. Ci vogliono anche simpatia, ironia, umorismo. Ci vuole il gesto. Ci vuole il territorio. Bisogna guardare lontano», ribadisce Piero Gabrieli, direttore marketing del molino.
E il giornalista Paolo Vizzari rimarca: «La comunicazione è fondamentale per l’essere umano. È quello che fa capire chi siamo. È il nostro modo di infilarci negli occhi degli altri. Comunicare è dare valore a qualcosa che si sa già che ha valore, ma che ha necessità di essere detto agli altri. Un cuoco, per esempio, non diventa famoso per le sue ricette, ma per molto altro. Un tempo erano i banchetti il suo modo per dimostrare potere. Per fargli fare una gran bella figura». È il caso di François Vatel, l’ideatore della chantilly, divenuto celeberrimo non certo per la preparazione della crema. Bensì per essersi gettato sulla propria spada dopo un banchetto non riuscito al meglio. Causa un ritardo nella consegna del pesce. Un suicidio per il disonore provato.
Quasi a dire: non solo da un piatto o da una pizza si riconosce il carisma di uno chef o di un pizzaiolo. «La vostra storia è infinitamente più interessante di una ricetta», esorta Paolo rivolgendosi al pubblico di PizzaUp. «La pizza deve essere centrale, certo. Ma non ci deve essere solo la pizza. Ci sono la luce, gli arredi, l’ambiente, l’abbigliamento, l’impiattamento. Il modo in cui si accoglie un ospite. È il gesto che crea empatia. È il far sentire le persone adatte al luogo in cui si trovano. È il far sentire a proprio agio una persona in doppiopetto quando tutti gli altri sono in jeans. Oppure il contrario. È essere coerenti. Non posso esibire il valletto e i bicchieri di cristallo e poi avere il maître con le scarpe sporche». Della serie, tutto deve seguire una certa lunghezza d’onda. Il punto è questo: «Capire in che modo io sono diverso e come poterlo raccontare».
Foto di Thorsten Stobbe