«Questa pizza non è una pizza», dixit il professore Massimo Donà in una lectio magistralis a PizzaUp, il simposio tecnico firmato Petra - Molino Quaglia. Ma se la pizza non è solo una pizza, cos’è veramente? È un linguaggio complesso. «Ormai la qualità è data per scontata. Ora voi dovete dare emozioni. Dovete trasmettere delle sensazioni. Con il sorriso, con lo sguardo, con l’ambiente, con l’abbigliamento, con la mise en place. Il vostro compito è quello di entrare in sintonia con il cliente. La voglia di venirvi a visitare deve passare anche e soprattutto per le emozioni. È questa la vera sfida per gli anni a venire», precisa Chiara Quaglia, amministratore delegato del molino atestino.
Questione di feeling… e di leadership
Ecco allora l’importanza della sala. «Forse è addirittura necessario riscrivere la sala della pizzeria. Perché non basta prendere il sommelier di un ristorante stellato e metterlo all’interno di un locale. Bisogna creare qualcosa ad hoc. Bisogna trovare un alfabeto. Come io ho trovato il mio», dichiara Piero Pompili. Che tiene orgogliosamente le redini del ristorante Al Cambio di Bologna. In via Stalingrado. In una zona periferica decisamente poco attraente. Ma che importa? Massimiliano Poggi, il titolare, gli ha dato carta bianca. Gli ha consegnato le chiavi. E lui? Ha ridisegnato il concetto dell’insegna. Matchando eleganza e informalità. Indossando un raffinato doppiopetto blu in trattoria. E puntando su una forte comunicazione.
«Sì, abbiamo iniziato facendo un gran chiasso sui social. Ci siamo presentati in costume, con ombrellone, pallone, maschera e boccaglio. In stile spiaggia. Ma dentro la sala del ristorante», racconta con classe Piero. Che crede fermamente nella coerenza. «Ci deve essere un filo comune fra cucina, mise en place e ambiente. E poi la sala ha il dovere di educare il commensale. Io per esempio metto degli orari precisi. Niente prenotazioni dopo le 21. E alle 10.40 i cuochi devono esser fuori dalla cucina. Punto. E basta».
Empatia fra passato e presente
Evolvere senza stravolgere. Questo il grande messaggio di Arcangelo e Pascal Tinari. I bros di Guardiagrele. La new generation di Villa Maiella: una stella Michelin davanti alla montagna madre. Un’insegna aperta - come fiaschetteria - oltre cinquant’anni fa da nonna Ginetta e nonno Arcangelo. Passata e trasformata nelle mani di Angela e Peppino (con corredo di fattoria) e ora impreziosita dalla presenza di due ragazzoni dal talento autentico. «Pensare che i nostri genitori ci obbligarono a non frequentare l’alberghiero. Non vollero porci vincoli. Così io feci il linguistico e Pascal studiò ragioneria informatica», spiega Arcangelo (classe 1985), che all’inizio sogna di stare in sala. Mentre Pascal (millesimo 1989) desidera diventare cuoco. Ma poi il destino cambia le carte in tavola. Arcangelo vola in Francia da Michel e Sébastien Bras. Pascal si forma Dal Pescatore dei Santin, per poi seguire la rotta alsaziana, approdando a l’Auberge de l’Ill. Tirocini stellatissimi. Ma la Maiella chiama e i bros ritornano. «Arrivando abbiamo cercato di non portare scompiglio. Abbiamo trovato il giusto equilibrio tra passato e presente. Non ho snaturato la cucina di prima per imporre la mia. Ho proceduto a piccoli passi. Io il vitello crudo col cumino, prima di metterlo in carta, l’ho fatto assaggiare a nonna Ginetta», racconta Arcangelo.
«Noi non siamo giusti o sbagliati. Siamo noi. Con il nostro pensiero. Abbiamo puntato poco sui social, bensì su una comunicazione reale. Dando forma a un vero e proprio sistema di sala. Abbiamo codificato come si scrive una comanda e dove si posiziona la comanda. Abbiamo trovato il metodo per gestire il tavolo. Perché solo avendo metodo si riduce il margine d’errore. E abbiamo anche imparato a prendere spunto dalle criticità», spiega Pascal. Incoronato "Miglior Sommelier" ne I Ristoranti e i Vini d'Italia 2020 by Le Guide de L'Espresso. Pascal, che afferma di essere il primo a rispettare la cucina. Mentre Arcangelo ribatte: «Se il tavolo non è pronto sono io, in cucina, che mi devo adeguare». Questione di equilibrio circolare. Questione di sintonia. Come accade fra l’edera e la quercia.
La traduzione della tradizione
Diversa, ma non così tanto, la storia di Antonello Magistà e del suo Pashà di Conversano, Bari. Dove torna la centralità della sala. «Pashà è il nomignolo che mi affibbiarono alcuni compagni di oratorio», dice Antonello. Che, nel 1998, all’apertura del ristorante, non ha alcun dubbio sull’epiteto da utilizzare. Pashà sarà. E continua ad essere. «Ma nel settembre del 2000, dopo due anni e tre cuochi, preferii fermarmi a riflettere. Così decisi di coinvolgere mia madre in cucina. Dopotutto, in un ristorante concepito e arredato come una casa, chi altri poteva stare in cucina se non una mamma? Era coerente», dice dominus Antonello. Che incorona chef mamma Maria Cicorella. «L’idea era quella di proporre i piatti della tradizione. Con una consapevolezza: quella che l’agnello con patate e lampascioni andasse rivisto», continua Magistà. E allora? Maria e Antonello rivedono la Puglia, restando fedeli alla Puglia. E la stella, giunta nel 2013, dà conferma al loro pensiero.
Poi? Il new to do è to reload. «Il nuovo cambio nasce dal mio dovere di figlio. Il lavoro in cucina è estenuante a lungo andare. Così quando ho conosciuto Antonio Zaccardi al Piazza Duomo di Alba ho capito che poteva essere la persona giusta. Il suo mondo vegetale poteva incontrare perfettamente quello di mamma. Adesso? Il piatto di fave e cicorie di mamma resta quello di mamma, ma quello di Antonio ha il suo perché», continua Antonello. Che su un punto non transige: «Noi di sala sappiamo bene il peso e il valore della serenità e dell’armonia. Io certe criticità preferisco discuterle in un momento di calma. Magari di convivialità». Così insegna il Pashà.
La grande bellezza dell'accoglienza
«Finalmente si mangia la pizza più buona del secolo (e pure del secolo scorso, ndr). Ma oggi noi abbiamo in mano una potenzialità enorme. Siamo distributori di arte, di design e di bellezza. Dobbiamo essere preparati al massimo per accogliere l’ospite. Perché un locale non è solo quello che finisce nel piatto. Un locale è un’esperienza totale. E la prima cosa importante è non far mai sentire l’ospite un intruso. Mai». A parlare è Vito Mollica, non solo executive chef del Four Seasons di Firenze, ma l’anima del prestigioso albergo della città del giglio. Uno che con umiltà sa dire: «Per me è un onore far parte dell’industria silenziosa dell’ospitalità». Uno che con semplicità dà lustro al lusso.
«Certo noi dobbiamo saper accogliere, creando l’ambiente giusto. Anche con un sorriso. Con il brunch abbiamo addirittura messo il cliente al centro, rendendolo protagonista», precisa Vito. «Sì, il brunch della domenica è stata una vera sfida. Avvicinare all’hotel anche i fiorentini. Così come del resto la trattoria-pizzeria e l’asian gastrobar estivi. La pizza diventa motivo di accoglienza», continua Mollica. Che elargisce pure qualche utile diktat per sala e dintorni: come riflettere prima di rispondere al cliente, senza dare un sì o un no secco, ma costruendo un dialogo; muoversi ragionevolmente fra i tavoli, evitando di essere robotici; e condividere con la brigata i successi e gli insuccessi aziendali, per far sentire tutti parte di un gruppo. «Senza dimenticare una cosa: tutto ciò che a noi può dar noia può invece essere fonte di fatturato. Il sassolino nella scarpa può offrire molte opportunità».
Foto di Thorsten Stobbe