Ricalcolo. Potrebbe avvertire il navigatore dell’auto, viste le solinghe strade da percorrere per raggiungerlo. Ricalcolo. Suggerisce la mente, deviando dalla retta via della tradizione. Sì, perché nonostante il nome, il ristorante Sedicesimo Secolo poco ha a che fare con la storia. Se non nell’involucro. Quello possente di un edificio cinquecentesco, facente parte del feudo dei conti Caprioli. “In realtà queste erano le scuderie del palazzo”, precisa Simone Breda, attuale patron dell’insegna di Pudiano, frazione di Orzinuovi, nel Bresciano. Anzi, in quella Bassa Bresciana defilata dalle rotte vitivinicole della Franciacorta. A una quarantina di chilometri da Cremona e a una sessantina da Bergamo. Insomma, nel nulla cosmico della campagna. Nel bel mezzo dell’agreste respiro lombardo. Ma vale il viaggio.
Le antiche vestigia e la meglio gioventù (culinaria)
Mura forti quelle del XVI secolo. Ma non sono il solo retaggio del tempo che fu. Gli interni portano impresse palesi tracce del passato. Il grande camino della sala principale ne è un esempio… perfettamente funzionante, grazie a qualche modifica moderna. Poi ci sono i pavimenti in cotto, i mattoni a vista, i soffitti alti e le travi in legno a tener viva la memoria storica del luogo. Finché le tele contemporanee dell’artista trevigiano Ferdy Poloni (appese nella saletta più intima) lanciano il sasso nel mare dell’attualità. Dove si tuffano le vite dei giovani titolari del ristorante. Due millennials che hanno appena superato i trent’anni: Simone Breda e Liana Genini. Lui in cucina. Lei in sala. Lui originario di Urago d’Oglio, in terra bresciana. Lei nata a Bonate Sotto, in provincia di Bergamo. Si sono incontrati all’Alberghiero di San Pellegrino Terme. E non si sono più lasciati. Muovendosi sempre insieme. Prima, all’Albereta, sotto l’egida del maestro Gualtiero Marchesi. Poi, al Clandestino di Moreno Cedroni, sul Conero marchigiano.
Ma per Simone e Lia le avventure non erano ancora terminate. E l’amore per la cucina (e per la sala) li ha portati a La Table d’Adrien, nella Svizzera francese; all’Art de Vivre, a Crans-Montana, sempre nel Vallese; e allo Spazio7 della torinese Fondazione Sandretto Re Rebaudengo. Finché, dopo tanto girare, sono tornati a casa. In un “terroir” forse non troppo avvezzo all’haute cuisine. “Qui mangerebbero polenta e spiedo tutti i giorni”, sussurra Simone. Che pian piano sta educando i suoi ospiti. “Cerco di creare piatti rotondi e puliti. Evitando di eccedere troppo con l’acido e l’amaro. Voglio regalare ai commensali una zona di comfort. E ora iniziano a fidarsi. Ogni volta si lasciano andare un pochino di più”. Noi ne siamo certissimi: li conquisterà.
La colta concentrazione del sapore
Ha carattere Breda. Lo si intuisce dalla sua mano. Sicura e con le idee chiare. Sa perfettamente dove andare. E la freccia che segue non indica certo la tradizione. Neppure quella rivisitata. Nel senso che il territorio c’è. Ma al palato arriva seguendo altre strade. Più lunghe, forse. Senza dubbio, molto più panoramiche. E spesso vista mare. “L’ispirazione la posso trovare in molte cose. Poi il piatto mi arriva in testa. Lo disegno. E quando lo realizzo lo aggiusto di acidità”, spiega lo chef. Che aggiunge: “Sono un vero fanatico di salse, brodi e fondi”. Lo si capisce assaporando i suoi piatti. Tutti dalla spiccata personalità. “E poi la salsa rende il piatto più vivo. Lo muove, lo cambia e lo trasforma mentre giunge al tavolo. Inoltre, i brodi e i fondi rialzano la temperatura delle pietanze”. Dettaglio di non poca rilevanza. Eccolo allora il ristretto di gallina di cortile incontrare la croccantezza della seppia e la spugnosità dei funghi cardoncelli. Umami puro, scuro, verticale. La campagna versata sul mare. In un assolo d’assoluta profondità.
Non si distrae Simone. E concentra al massimo i sapori. Anche nel risotto. Cotto in un brodo di croste di grana (lode al recupero, Massimo Bottura docet, ndr) con crema di melanzana viola e fumo di fieno. Messo a bruciare in una casseruola in rame targata Agnelli, dove viene posizionata a sua volta la pentola del riso. Che mantiene il suo candore, assumendo un’inebriante nota fumé. Una portata porzionata rigorosamente davanti ai clienti. “Amo valorizzare il servizio in sala. Vorrei riportare anche il gesto del tranciare i volatili”. L’eco degli insegnamenti marchesiani si sente.
E adora anche fare i risotti Breda. Ne ha due in carta - l’altro è con bisque di canocchie, porri e maggiorana. “Li preparo anche per una persona”, sottolinea il cuoco. Che mette a punto pure la pasta fresca: maltagliati con pinoli, zucca ai carboni ed emulsione di telline; nonché ravioli ripieni di coniglio e brodo alla cacciatora. Della serie, la ruralità eletta a nobiltà. Mentre il capriolo svela la sua anima aristocratica, allagato dal suo stesso fondo (complice il Porto) e arricchito da pere e barbabietole. Bocconi regali.
E il pesce? Non è certo dimenticato. “Anche se preferisco utilizzare pesci poco canonici”, precisa Breda. E lo spinarolo conferma. Appartiene alla famiglia degli squali e vanta carni saporite e tenere. Simone lo propone in oliocottura (e poi passato in paella) con polvere di olive taggiasche al barbecue e concentrato di calamaro. Traduzione: il mare che allaga il mare. In un'aromatica iperbole.
Gioca lo chef. Anche nei dessert: cioccolato bianco, finocchio (in due declinazioni: cotto a bassa temperatura ed essiccato) e liquirizia; vaniglia, noci pecan e caramello mou; torta di mele. In cui il tondo frutto si trasforma pure in cialda e coulis, per essere accompagnato da crumble alla cannella e crema inglese. Fiera di rivestire il ruolo dell’immancabile salsa.
Deliziosi divertissement
“A me piace fare tutto. Dalla a alla zeta”, dichiara lo chef. Che nel suo Sedicesimo Secolo non lascia nulla al caso… e alle mani d’altri. Dando vita al pane, alla pasta homemade, agli amuse bouche e alla piccola pasticceria finale. Voilà, su un letto di ceci secchi arrivare loro, i mini stuzzichini d’inizio pasto: bonbon fritto di merluzzo al nero di seppia; tartare di ricciola su cialda di riso; focaccia di ceci e lardo; biscotto al parmigiano e polvere di pomodoro. E ancora, terrina di foie gras, nocciole e composta di cipolle.
Intanto, giunge una fetta di pane caldo e fragrante, figlio del lievito madre. Da inzuppare nell’olio extravergine biologico Centonze. Per un abbraccio lombardo-siciliano. Per duettare col menu si schiera invece un manipolo di delizie: focaccia all’origano, pane integrale, pane sfogliato al burro, lavash ai semi di sesamo e papavero e filiformi grissini. Da sgranocchiare senza timor alcuno. Nel caso finissero, verrebbero prontamente rimpiazzati. E se venisse voglia di fromage? Voilà, casearie leccornie delle valli bresciane e bergamasche, a base di latti vaccino, caprino e pecorino, prendono posizione su un originalissimo tagliere in legno. “Era un vecchio davanzale della casa dei miei genitori”, puntualizza Simone.
Altro elogio all’arte del riciclo.
Col caffè - della torrefazione bresciana Lucaffè - si avvicina infine una truppa di golosità: emulsione di fragola e crumble salato; lingue di gatto alla cannella; gelée al mango; meringa ai finferli e cioccolato bianco; e marshmallow caldi allo yogurt.
Fra perlage e chignon
Che classe ha Liana mentre si muove leggera in sala. Nella sua elegante divisa noir e con i capelli raccolti in un raffinato chignon. Ha un senso innato per il servizio mademoiselle Genini. E una grazia assoluta nei modi e nei gesti. Uno stile che pervade anche la wine list: un centinaio di etichette ben meditate e selezionate. Italiane per lo più, con qualche divagazione in Francia per lo Champagne e per un dorato e mielato Sauternes Château Simon (summa di semillon, sauvignon blanc e muscadelle). Perfetto su formaggi, foie gras e pasticceria secca.
E per chi ama le bolle nazionali? “Milledì” Rosé Brut (100% pinot nero) di Ferghettina, giusto per pescare dalla (quasi) vicina Franciacorta. Oppure “Espressione 8”, un metodo classico dell’azienda agricola Ricchi, con sede nella mantovana Monzambano. Una carta riflessiva, che non dimentica il Lugana diSansonina; il Curtefranca Bianco “Convento della Santissima Annunciata” by Bellavista; il Pinot Grigio della maison friulana Lis Neris; e il sannita “Pelike" (100% fiano) di Oppida Aminea, beneventana tenuta dei Fratelli Muratori. E per un assaggio di rossi? Si spazia dal rubino Dogliani (100% dolcetto) dei Poderi Luigi Einaudi all’aristocratico Sfursat “5 Stelle” (100% chiavennasca) di Nino Negri; dall’avvolgente “Otello NerodiLambrusco” delle emiliane Cantine Ceci al vigoroso “Alto”, sangiovese toscano di Petra. “Non vogliamo dare tutto subito. Ma perfezionare costantemente la cantina”, spiega Simone. E si sa, chi va piano va sano e va lontano.
Foto della gallery qui sotto di Fulvio Cavadini