“La cosa più divertente? È creare un cocktail per contrasto”, spiega Mattia Bescapè, mentre prepara il “Kadava Pyaar” (Amore Amaro), a base di Buffalo Trace bourbon whiskey, Cynar, Chartreuse gialla, triple sec e Bitter Lemon Fever-Tree. Un drink secco, citrico, aromatico e non certo sweet. In perfetto contrappunto con la delicata complessità delle hara bhara, polpette verdi a base di topinambur, piselli, aglio, zenzero e prezzemolo, con salsa di yogurt e riso croccante. Un piatto vegetariano dal timbro deciso, che ben accoglie sorsi dalle nuance speziate e agrumate. “A dire il vero, qui ci ha messo lo zampino anche Giancarlo Spidalieri”, svela Mattia, rendendo merito al bartender che lo affianca, dietro il bancone di Cittamani.
Sì Cittamani, il ristorante indiano guidato da Ritu Dalmia. Che a Delhi gestisce le tante insegne dei Diva Restaurants e che a Milano ha aperto le porte della sua India contemporanea. Quella autentica, familiare, casalinga. Quella che non tradisce la tradizione ma si lascia contaminare dal resto del mondo. In primis dal Bel Paese. Quella che sa tradurre in italiano un indiano street food come il bread pakora: pane fritto in pastella di farina di ceci con ripieno di patate e taleggio dop (orgogliosamente lombardo, tutelato dal consorzio). Quella che non si pone regole e che odia i cliché, al punto da intrecciare cucina e mixology, per un raffinato food pairing che non stacca gli occhi dal sari ma indossa volentieri gonna e pantaloni.
Ecco allora che l’insalata di polpa di granchio con semi di timo e yogurt incontra il “Meethi Garami” (Dolce Estate): bourbon whiskey, pompelmo, sciroppo di latte di cocco, miele, cannella, assenzio e lime Peychaud’s bitter. In un mix perfetto di dolcezza e fragranza.
E poi c’è l’anatra spice, affumicata e impreziosita da zenzero e khada masala (spezie intere), con corredo di chutney di melagrana e mango. Ideale con il “Garam Chal” (Calda Passeggiata), ossia mezcal, lime, Chartreuse verde, maraschino, hot sauce e angostura. Per una virata palesemente piccante.
Intanto, il pollo tandoori in salsa makhani con naan al burro abbraccia “One Night in New Delhi”: rum scuro, Grand Marnier, menta sauce, sciroppo di garam masala, lime, angostura e orange bitter. Mentre gli involtini di vitellone marinati in aglio e zenzero, ripieni di primo sale, mango, prezzemolo e salvia e serviti con zucchine croccanti vanno d’accordo con il “Baisakhi” (Festa hindi di inizio primavera), che contempla gin, ananas, sciroppo di paprika, curcuma e cannella, limone, liquore all’albicocca, menta e vaniglia bitter.
Ma non finisce qui. Perché la questione di feeling coinvolge pure il galouti (finissimo macinato d’agnello) con garam masala e parotta (pane del sud dell’India) e il drink “Hindustani Thappar”, ritmato da lime, tequila, Carpano Antica Formula, ananas, zenzero e menta. Così come i cubi (tikka) di salmone cotti al tandoori e aromatizzati allo zafferano e al timo dialogano al meglio con il “Basant Hawa” (Brezza Primaverile), summa di vodka, lime, sciroppo di chiodi di garofano, zenzero, lavanda e cardamomo, marmellata d’arance amare, angostura e tea touareg soda. Mentre i tortelli ripieni di coscia di maiale cotta a bassa temperatura strizzano l’occhio al drink “Hindi Tiki”, con rum scuro, sciroppo di cannella, paprika e curcuma e lime chocolate bitter.
E se il pairing lo si volesse fare col vino? La carta contempla una sessantina di etichette. Per trovare il giusto accordo anche con piatti come i vermicelli di vetro saltati nel wok con yogurt piccante, curcuma a carciofi al tandoori; il polpo speziato e cotto nel tandoori con carote (saltate e in purè) e cumino; e la fantasia di pomodori ciliegini, prugne e pesche con salsa al tamarindo, presentata con riso croccante.
Insomma, un linguaggio internazionale per comunicare un’India dinamica, urbana e cosmopolita. Ospitata in uno spazio capace di alternare la storica pavimentazione in seminato con materiali pregiati quali marmo, pelle, sucupira e ottone. Che forgia applique e sgabelli, realizzati artigianalmente nel grande Paese asiatico su disegno dell’architetto Paolo Cossu, il cui studio londinese di architettura ha progettato tutto il ristorante. Avvalendosi della collaborazione del local architect Giuliana Barilli. Per un ambiente dal respiro metropolitano.