“Qui non prepariamo cocktail molecolari. Offriamo piuttosto un tuffo nel passato. Grazie alla rilettura contemporanea dei classici del Novecento”, spiega Dario Roncalli, direttore di Giacomo Arengario, stella polare di quella costellazione che va sotto il nome di Giacomo Milano: otto insegne - sette nel capoluogo lombardo e una a Pietrasanta -, un fondatore quale Giacomo Bulleri e un affare di famiglia le cui redini sono oggi nelle mani della figlia Tiziana e del marito Mario Monti.
Una bella storia di successo, fatta di visione e lungimiranza. Che ha condotto (nel 2010) all’ambizioso progetto di aprire un ristorante proprio all’interno del Museo del Novecento. Anzi, nel cuore stesso del museo, al secondo piano. Quasi in equilibrio fra l’ampia rampa elicoidale - che prende avvio col maxi dipinto del Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo - e l’ultimo floor del palazzo, illuminato dalle spire della Struttura al Neon per la IX Triennale di Milano by Lucio Fontana. Quasi un abbraccio teso verso la Madonnina.
Sì, perché il Duomo è lì, a pochi metri. Con le sue guglie e la sua dorata figura celestiale. E lì sono pure la piazza e la Galleria Vittorio Emanuele II. Uno scenario spettacolare, che si svela agli occhi di chi se ne sta nella loggia tutta ferro e vetro di Giacomo Arengario. Una sorta di palchetto privilegiato sulla Cattedrale. Che d’estate, in terrazza, par quasi di toccare.
Uno spazio metafisico, luminoso e vertiginoso. Che porta la firma degli architetti Laura Sartori Rimini e Roberto Peregalli, in un palese inchino all’Art Déco. Pronta a esprimersi in un dedalo di period rooms, salotti conviviali fieri di dialogare con differenti volumi spaziali. Ecco allora la hall: riservata come una lobby; aperta al mondo per via dell’ascensore che campeggia al suo ingresso. Un ambiente intimo e ovattato, ritmato da tavoli bassi, poltrone e divani, incorniciati da pareti dai motivi geometrici in lacca oro, nero e rosso. Palesemente ispirati agli smalti di Jean Dunand. Uno scrigno, nutrito di bellezza e velluto.
E mentre la sala ristorante indossa pannellature in legno dorato, specchi anticati e soffitti a cassettoni, una galleria conduce alla cucina a vista. Riservando la possibilità di mangiare su un lungo bancone, quasi vis à vis con la brigata. Capeggiata dallo chef (di origini peruviane, ma ormai adottato da Milano) José Carlos Otoya Angulo. E il bar? Voilà, poco prima della loggia. Fra nero e trasparenza. Verticale nei suoi sette metri e mezzo di altezza. Orizzontale nel suo bancone black. Dietro al quale officia il giovane, ma esperto, bar manager Fabrizio Tozzi. Proprio sotto la brillante e monumentale sfera-astrolabio, fiera di creare un’ideale liaison con il Neon di Fontana posizionato al piano superiore.
Gli anni Venti e Trenta riecheggiano fra gli ambienti. E il Novecento finisce nei drink. Restaurati da un twist creativo, ma rispettoso delle origini. Proposti in una carta variegata, ma nella quale non ci si perde. E serviti in abbinamento a un poker di finger food griffati da chef José. Qualche assaggio? Battuta di manzo con vinaigrette alle erbe, patata e guanciale; carciofo in tempura con scaglie di mandorle, olive e spuma di reblochon; tataki di tonno rosso, emulsione al salmoriglio, sedano rapa e calamaro fritto; e raviolo nero con gamberi, crema di porri ed essenza al mandarino. Abstract di un piatto in carta, che vanta pure trota salmonata e huacatay, menta selvatica che cresce in terra peruviana. O ancora, tartare di branzino, zucca piccante, carciofo crudo, alghe e lime; e pâté di foie gras, pane alla castagne, fico al Porto e crumble di amaranto, amaretto e mandorle.
Nella coppa? “Blueberry Sour", un upgrade del “Whiskey Sour" secondo Tozzi. Un pre dinner, ma pure un after dinner: summa di bourbon lasciato in infusione con i mirtilli, succo di limone, zucchero liquido, bianco d’uovo e Peychaud’s bitter, un bitter aromatico e floreale, messo a punto (intorno al 1830) da un farmacista di origine creola, tal Antoine Amédée Peychaud.
Whisky giapponese leggermente affumicato - il Miyagikyo della maison Nikka Whisky - invece per il “Sensei”. Complici vermouth rosso Carpano Antica Formula, zucchero liquido e cinque o sei gocce di bitter al cioccolato azteco. Traduzione: il mitico "Old Fashioned" in una nuova versione. Dai sentori fumé.
I “Moscow Mule” addicted devono poi sperimentare il “Greek Mule”, intrigante e insolito. Visto anche l’utilizzo di un amaro valtellinese come il Bràulio. Felice di sposare ginger beer e liquore greco alla mastica. Una resina balsamica, felice di rincorrere le nuance amaricanti del Braulio in sorsi perfetti per l’aperitivo.
“Hibiscus Negroni” infine per omaggiare i cent’anni di un drink divenuto leggenda. Che, nella mente di Fabrizio si fa più signorile, profumato e profondo: Campari, vermouth bianco, velluto aromatizzato all’ibisco e gin sardo Pig Skin, affinato in botti di castagno centenario, utilizzate precedentemente per l’invecchiamento della Vernaccia. Un gin morbido e suadente, dalle nuance di macchia mediterranea, che mutua il nome da un incontro. Quello ravvicinato con un gruppo di cinghiali, durante la raccolta delle botaniche destinate alla produzione: ginepro, mirto, timo, finocchietto, salvia e scorza di limone.
E se a questo punto venisse fame? Ci si potrebbe fermare per cena. In carta: risotto al parmigiano con rognone saltato all’aglio e prezzemolo; tagliatelle al ragù di ossobuco con gremolada allo zafferano e limone; e costoletta di vitello con patate e rosmarino; e rombo glassato al nero, sauté di borlotti, olluco (un tubero andino) e rucola. Milano, ma con gli occhi rivolti al mondo.