“Io sono di Conegliano Veneto. E per me Oderzo ha sempre avuto un solo significato: la strada che conduce al mare. Poi ho cambiato idea”. A parlare è Alessandro Breda. Deus ex machina del Gellius. Nell’opitergina via Calle Pretoria, in perfetto equilibrio tra il fiume Monticano e quella Piazza Grande dove troneggia il Torresin, la torre dell’orologio. Basta alzare (e acuire) lo sguardo per notare il dipinto della lupa che allatta i gemelli Romolo e Remo.
Ancestralità e contemporaneità
“Certo, Oderzo divenne un illustre municipium romano. Poi qui arrivarono i Barbari, e poi ancora i Bizantini. E a un certo punto la cittadina entrò nell’orbita della Repubblica di Venezia. Anzi, si dice che il primo doge fosse proprio opitergino. Ma le sue origini risalgono all’XI secolo, ad opera dei paleoveneti, bravissimi a lavorare l’argilla e ad allevare i cavalli. Allora l’insediamento si chiamava Opterg, ossia piazza del mercato. Perché era un punto di collegamento importante. Con Este e con Trento. Tant’è che in seguito venne costruita la Postumia, per unire Genova ad Aquileia, attraversando la Pianura Padana e passando per di qua. Qui, per esempio, si notano un tratto della cinta muraria, una porta e uno dei lastricati cardines. Questo invece è quel che resta dell’alto torrione. A conferma del ruolo strategico e difensivo del luogo. Un castrum, divenuto anche carcere. Dove ora vi è il ristorante un tempo vi era infatti il cortile. La zona d’aria”, spiega Giuliana, che fa parte dell’Associazione Athena e che propone visite guidate al Gellius. Per meglio conoscere la sua anima archeologica e ancestrale. Patrimonio dei Beni Culturali e armonicamente fusa con l’insegna gourmet.
“Ma va anche fatta attenzione a questi. Sono capitelli funerari. E risalgono all’epoca romana di Opitergium. Tutto è scritto su queste pietre”, continua Giuliana. Tutto è scritto. Basta saper leggere: Caius Gellius urla un’urna. “Caius Gellius, figlio di Quintus, appartenente alla tribù Papiria, quattuorvir (fece erigere il monumento) per il padre Quintus Antiochus, liberto di Quintus e per Caesia Secunda, figlia di Titus, moglie del padre”. Ora tutto è più chiaro. Anche il perché e il percome del nome del ristorante. Aperto da Alessandro nel 2001, dopo aver conosciuto l’imprenditore Genesio Setten. Che pochi anni prima aveva seguito il restauro dell’antico sito romano. Aprendo l’insegna, ma senza successo. Nel 2005 arriva la stella Michelin.
Un unicum il Gellius. In cui memoria e modernità creano un continuum armonico e interattivo. In cui l’antico parla al presente e il futuro si coniuga al passato remoto. Scendere al piano inferiore significa tuffarsi nella storia. Ma anche nell’oggi. Capitelli, iscrizioni, frammenti di torchi e di colonne sono lì a dialogare apertamente con mostre d’arte contemporanea che Breda ama ospitare. Nel Nyù, il bistrot, ormai attivo da oltre dieci anni. “Nyù come nuovo, ma pure come nido”, precisa Alessandro. Descrivendo gli spazi adiacenti agli scavi. Anzi, vista scavi. Per un seducente connubio fra minimalismo high tech e vetusti reperti. “A me piace definirli resti, avanzi della storia. Che nell’ottica della sostenibilità devono essere tutelati e valorizzati”. Questione di integrazione e di inclusione.
La carta del bistrot? Semplice ma accuratissima. Carpaccio di manzo marinato e agretto di funghi; mosaico di pesce crudo e salsa tamari al mandarino; zuppa di seppioline e fregola; orzo mantecato, zucca, scarola e guanciale; e pescato del giorno con spuma di patate, capperi, pomodori e limone. Terra e mare. La mano di Breda si fa già sentire. Ma per scoprirla appieno bisogna risalire.
Design, umami, capasanta e coniglio
Ingredienti, stagionalità, territorio. Anch’essi vanno tutelati ed esaltati. Al pari delle antiche vestigia opitergine. In uno sguardo allargato. Sull’Italia e, perché no, sul mondo. “Ovvio, se poi c’è qualcosa di eccellente prodotto qua vicino preferisco. Ma non sono un fanatico del chilometro zero”, precisa Ale. Che per l’allestimento della nuova mise en place ha optato per Laesse, laboratorio artigianale di ceramica fondato da Stefania Vazzoler, che se ne sta in un casale, non lontano dal locale. Ciotole, piatti, tazze. Sinuosi e solidi. Materici e leggeri. Esclusivi eppur quotidiani. Ideali per accogliere pietanze pronte a miscelare inedito e familiare, sperimentale e confidenziale.
Tutto al Gellius è studiato nei dettagli. Anche le luci, griffate Artemide, quasi fari, fieri di illuminare mattoni e tavoli. Dove si concentra l’esperienza. Mentre le divise sono firmate dal brand britannico Paul Smith, in una vera crasi di classico e casual. A indossarle? Fabio, Lisa, Silvia, Aurora e Mattia. Mattia Garon, il maître sommelier. Millesimo 1990, radici ad Abano Terme, un incipit con gli Alajmo bros e una collezione di premi, di studi sul vino e di esperienze sul campo: al The Ivy e al The Grill del Dorchester di Park Lane, a Londra; all’Osteria Francescana di Modena e all’Aqua Crua di Barbarano Vicentino. Per poi approdare a Oderzo.
Alessandro invece è trevigiano, di Conegliano. Classe 1968 e studi alla scuola alberghiera di Falcade. Poi? Parigi, il servizio militare (nelle cucine da campo incontra Giancarlo Perbellini), Il Desco veronese, Gualtiero Marchesi, il Tantris di Monaco, l’Enoteca Pinchiorri di Firenze (in brigata con lui c’erano Carlo Cracco, Andrea Berton e Paolo Lopriore), il Fours Seasons della City e l’apertura - con l’amico Adriano Fumis - de Il Capitello, a Corbanese di Tarzo, sempre in terra trevigiana. “Ora qui mi sento a casa. Gli opitergini mi vogliono bene”, dichiara felice Breda. Orgoglioso anche del restyling degli ambienti, grazie al progetto dell’architetto Alessandro Isola (il cui pensiero innerva anche le linee del Nyù). Una sorta di terza rinascita. Dopo i lavori per dar vita alla sala e al Lounge Bar (che si affaccia e si allunga su Piazza Grande) e dopo la creazione del bistrot. Una rinascita all’insegna dell’essenzialità e della bellezza, del rigore e del calore. E soprattutto dell’incontro fra i diversi spazi. Fra il su e il giù, il fuori e il dentro, il vecchio e il nuovo.
Ouverture. Rapanello, salsa tonnata e crumble di sarde; baccalà mantecato; schie con polenta al burro e salvia; e caramella all’Americano con crema di arachidi. Un aperitivo solido, da pescar con la Quarta Posata di Mepra. Per poi abbandonarsi al tepore di un brodo di seppie in umido, con “boa” di mousse al nero di seppia. Il mare. Umami, abissale, corroborante. In tandem: il Private Garnei 2014, Prosecco Superiore by Bisol. Un vibrante metodo classico. Un dosaggio zero che dà voce al lato più unconventional dell’uva glera. Sulla tavola, grissini, panini al burro, pagnotta tiepida ai grani antichi e nuvoloso burro alla nocciola. Che ben si lascia spalmare.
Cardoncelli arrostiti, crema di patate affumicate, fichi e grano saraceno soffiato. L’umami torna, terragno più che mai, lenito dalla dolcezza del frutto e intriso del leggero sentore fumé dei tuberi. “Del cardoncello amo la callosità”, svela Alessandro. Mentre Mattia serve la Francia, quella delle Côtes du Jura: Blanc Tradition 2012 targato Château d’Arlay. Chardonnay e savagnin, per un bianco affinato in legno che si fa notare. Respirando il tempo e regalando nuance complesse e profondità di gusto. Nocciola, tè, uva passa. Giallo, limpido, dorato. Intenso, profondo, elegante, persistente. Magnifique.
E dopo il bosco e l’orto, una trilogia ittica: scampo e caramello all’aceto di crostacei; branzino, cetriolo e gin tonic; capasanta, scarola, lime e burro nocciola. Sì, Breda adora il burro. Che male c’è? E la capasanta si eleva a boccone magistrale, complice un tocco d’acidità. Nel calice, la Spagna. O meglio, le Rías Baixas, incarnate nel Tricó 2015, magistrale albariño by Compañía de Vinos Tricó. Un galiziano ampio, floreale, fruttato, a tratti balsamico. Inaspettato. Come un tricó, un bambino nato senza ansia e senza attesa. “Noi cerchiamo sempre etichette dalla forte identità. Persino acquistando da qualche asta”, ammette Garon.
Ravioli ripieni di stracchino del Piave, corredati di uova di aringa e zest di limone salato, e allagati da brodo di bacche e foglie di alloro. Il Veneto che sfocia in lago di aromi. Treviso nel bicchiere. O meglio Roncadelle di Ormelle, dove ha sede la maison Italo Cescon e dove nasce Madre. Che, per la quarta volta, ha ottenuto i Tre Bicchieri del Gambero Rosso. Luminoso e brillante, fra note minerali e scatti sapidi. Suo padre? È il Manzoni bianco. Biologico.
Intanto la campagna torna. In un’ode al cortile: riso con porcini, prezzemolo e coniglio grigliato. Sembra un piatto della domenica. E lo è. Festoso, gioioso, appagante. Incentivato da un gran Pinot Noir austriaco: il Black Vintage 2016 di Gruber Röschitz. Rosso rubino, sofisticato, austero, dal sorso pieno.
Ma Alessandro non abbandona le scorrazzate in corte. E incanala le sue energie in una faraona. Tanto popolare quanto superba e regale. Faraona (petto e coscia, morbidissimi) in casseruola, salsa peverada (alla cui preparazione concorrono le interiora del volatile) e indivia all’aceto di lampone. Raboso Piave - anzi, Piave Malanotte docg - a sostenerne l’alto lignaggio: un Gelsaia 2007 di Cecchetto, cantina trevigiana di Tezze di Piave. Una parte delle uve viene appassita in fruttaio. Sfumature di ciliegia, prugna, datteri e fichi. Fondente e persistente. “E l’annata 2016 ha una vita davanti”, suggella Garon.
Brancamenta. Yes. Brancamenta in granita con panna al cardamomo. A resettar mente e palato. E far spazio a lui: il tiramisù. Versione Breda style. Ma questa volta impreziosito dall’olio di oliva. Nel bicchiere old fashioned: Chino Wallbanger. Traduzione: chinotto, Galliano e bitter. “È piacevole terminare con un drink fresco, poco alcolico e parecchio aromatico”, puntualizza Mattia. E anche digestivo, aggiungiamo noi. Post: fettine di mela in osmosi con il passion fruit; sablé al limone e liquirizia; tartufi speziati e gelatine all’extravergine e cacao amaro.
Opitergium... e Opitergin
“Il bar è il mio affaccio sul paese. Il mio modo per dire che ci sono. E che cerco sempre di far le cose per bene”, continua chef Breda, spostandosi nel Lounge Bar. Il luogo più conviviale, dinamico e volitivo del regno “alessandrino”. E anche il più diurno e notturno. Da provare? I cocktail. Magari scegliendone uno con l’Opitergin. Il gin di casa, messo a punto grazie alla collaborazione con la Liquoreria Friulana Opificium di Spilimbergo. Del resto, si sa, la cooperazione è uno dei mantra di Breda. Che, nel sito online, rammenta una frase di Omero nel Discorso agli Ateniesi sulla democrazia: “Lieve è l’oprar se in molti è condiviso”.