La sua cucina? È un abbraccio caldo e accogliente. Come quello che lui sa regalare a chi lo va a trovare. Alla Florian Maison di San Paolo d’Argon, su quelle dolci colline bergamasche che fanno da ingresso alla Val Cavallina. Un relais con salotto stellato. Poche suite - una, la Bois de Champagne, esibisce il legno riciclato di vecchie botti di rovere - e un grande teatro gustoso guidato proprio da lui, Umberto De Martino: molto più di uno chef, un vero padrone di casa. Complice l’energia e la vitalità di Monia Remotti, al fianco di Umberto e alla regia della sala e della struttura. Che è entrata a far parte del prestigioso circuito di hotel de charme e ristoranti gourmand firmato Les Connectionneurs. Un luogo elegante, che indossa il candore del bianco e i tenui toni del crema. Sussurando dettagli colorati.
Così come è il colore a nutrire la cucina di De Martino: radici sorrentine e ormai da molto tempo benvenuto al nord. Senza mai perdere la solarità del sud (e nemmeno qualche raggiante inflessione dialettale). Si vede. E si percepisce. Anche in quel savoir-faire con i clienti. E in quel modo generoso di ospitare i colleghi. Certo. Perché alla Florian Maison di cuochi “brillanti” ne sono passati tanti: da Gennarino Esposito a Marco Sacco, da Nino Di Costanzo a Walter Ferretto, da Vincenzo Guarino a Felice Lo Basso, da Domenico Iavarone a Giuseppe Aversa, da Lino Scarallo a Giuseppe Mancino. Per dar vita a “serate sotto le stelle”. In tutti i sensi, soprattutto in estate. Grazie alla terrazza dove cenare en plein air.
E una serata sotto molte stelle è stata quella che ha eletto a special guest due colleghi di firmamento quali Enrico Bartolini e Giancarlo Morelli. Enrico, all’opera al milanese Mudec, ma pure alla guida della galassia che va sotto il segno del “Be Contemporary Classic”, inanellando il Casual di Bergamo Alta; La Trattoria di Castiglione della Pescaia, nel mondo dell’Andana; il Glam di Venezia e la Locanda del Sant’Uffizio a Cioccaro di Penango, in Monferrato. Giancarlo, capitano del Pomiroeu di Seregno, ma anche alle redini della Trattoria Trombetta di Milano e del ristorante che porta il suo cognome all’interno del meneghino Viu. Dove firma anche la proposta del Bulk - Mixology Food Bar.
Il menu? Piacevolmente armonioso. Rispettoso delle singole identità degli autori ma anche capace di creare una coerente consecutio fra le portate. In perfetto bilico fra settentrione e meridione, terra e acqua, memoria e modernità, tradizione e provocazione. A partire dagli amuse bouche, griffati De Martino. Alice farcita di provola affumicata e bagnèt rouge di pomodorini, ovvero una brezza e un saluto dalla Campania. Servita in un bicchierino.
Sul cucchiaio in porcellana finisce invece il salmone con caprino e caviale wasabi. Il Giappone visto da lontano. E da uno chef mediterraneo.
Mentre il terzo appetizer interroga il cortile, chiedendo e rispondendo: Non Quaglia? Sì che quaglia! Presentata con corredo del suo ovetto e del tartufo bianco. In abbinata al tris d’assi? Il “QZero” 2012 by Quadra, azienda Franciacortina di Cologne, diretta dall’agronomo ed enologo Mario Falcetti. Un dosaggio zero riserva, ottenuto da chardonnay e pinot nero. Un Franciacorta di stoffa. Che se non è seta è indubbiamente chiffon.
Risale all’annata 2019 invece il piatto proposto da Umberto come entrée. Ormai un cult dell’insegna: il Gambary Orange, neologismo sincratico nato dalla fusione del gambero col Campari, qui sublimato in gelatina. Una pietanza armoniosa nella sua dicotomia di crudo - il carpaccio di gambero rosso siciliano - e cotto - il tempura del crostaceo stesso. Posizionati l’uno sopra l’altro. Mentre la dolcezza della burrata incontra la piacevole e agrumata amarezza dell’arancia. In duetto: il brut nature “Cuvée 60” 2013 di Casa Caterina, altra azienda franciacortina. Ma questa volta dei fratelli Aurelio ed Emilio Del Bono, a Monticelli Brusati. Due artigiani del vino, che in questo blanc de blanc sintetizzano cultura contadina e finezza assoluta.
Intanto, Giancarlo Morelli fa l’uovo. Proposto anche nel tasting menu del suo headquarter meneghino. Un egg in camicia, alla cui bontà concorrono burro, caviale al top e soffice crema di patate alla base. Pronta a celare un nido di porri stufati. Nel calice? Il “Cabochon” 2013 di Monte Rossa, cantina di Bornato di Cazzago San Martino, condotta da Emanuele Rabotti. Un brut prestigioso, ottenuto dai migliori cru della collina dalla quale l’azienda mutua il nome. Un metodo classico di classe, che introduce la barrique nella prima fermentazione del mosto e che prevede un affinamento sui lieviti superiore ai 36 mesi.
Poi, la graffiata di Enrico: riso e latte al pepe verde e civet di lepre. L’infanzia e la maturità. La spensieratezza e la profondità. L’essenza eburnea del riso e del latte e quella audacemente selvaggia del civet. Una pietanza-ossimoro, profondamente intrisa della bartoliniana cifra stilistica. Un risotto che sa bene coniugare comfort e arditezza, calma e dinamicità. In pairing, il Barbaresco “Lorens" 2015 di Lodali, con sede a Treiso, in Langa. Nebbiolo in purezza, intitolato a Lorenzo, papà di Walter (l’attuale condottiero della cantina) e figlio di Giovanni (il fondatore).
Barolo “Lorens” 2014 invece per sposare un’altra portata morelliana: capriolo, funghi trombetta, zucca e caffè. Un piatto terragno, che non dimentica l’umami del risotto di Enrico ma ne trasforma il profilo, sul quale si inseriscono i più delicati e soavi tratti vegetali della cucurbitacea e delle cime di rapa.
Infinite il dessert by Bartolini: zabaione, pistacchio e albero di arance. La Sicilia, contaminata dalla colata live della spumosa crema tanto tipica del nord. A completare il tutto: il passito “Exenthia” 2008 by Biava, azienda agricola di Scanzorosciate. “Un passito di luce”, come lo definisce il suo creatore Manuele. “Diverso dai passiti di sole del sud”. Nella sua anima: moscato giallo e moscato di Scanzo. Alle spalle: sei mesi di appassimento delle uve - tutte sgranate a mano - e ben dieci anni di riposo (del vino) in cantina. Un’eccellenza. “Nata per il vescovo di Bergamo”, precisa mister Biava. Fu infatti nonno Giovanni - detto Gino - a creare il nettare su richiesta dell’alto prelato, che esigeva un vino capace di non macchiare gli abiti talari. E sebbene il percorso istintivo potesse portare a una vinificazione in bianco del moscato di Scanzo, la ricerca condusse su un’altra via: quella di mantenere la vena rossa - sacrosanta in chiesa - su una base di moscato giallo. Detto, fatto. E il successo fu tale da svincolarsi dalla curia per finire sul mercato. “Ma lo produciamo solo nelle migliori annate”, chiosa con orgoglio Manuele.
Mentre è la piccola pasticceria di Umberto a suggellare la cena, in un’infilata di mini delizie. Voilà, macaron al mango, cioccolato bianco e passion fruit; babà con crema al limone; pralina alle nocciole piemontesi e arancia caramellata; pralina al cioccolato fondente, mango e passion fruit; cannolo con ricotta, cioccolato e pistacchi; e gelée di mandarino. Non dimenticando sua maestà la sfogliatella. Crunch e rock. A ricordo delle origini partenopee di De Martino.
Foto in gallery di Stefano Borghesi