Pesce e Champagne. Un grande classico. Anzi, l’abbinamento per antonomasia. Talmente dato per assodato che pare ormai scontato. Attenzione però. Basta guardare da un’altra prospettiva… e le cose cambiano. È sufficiente cambiare schema di ragionamento e tutto appare in modo diverso. Forse, più semplice e chiaro. “Provo a darvi qualche dritta innovativa”, annuncia l’esperto Marco Chiesa, Ambasciatore italiano ed europeo dello Champagne 2010. “Vi suggerisco una nuova chiave di lettura per aggiungere valore all’esperienza gustativa”.
Come? Usando cuore, anima, spirito e corpo. E facendo leva non tanto sugli aromi ma su quel che evoca lo Champagne al momento dell’assaggio. Charme, romanticismo, estasi, misticismo, tenerezza. Della serie, mettiamo da parte (almeno per una volta) fiori bianchi, frutta a polpa gialla, agrumi, sottobosco, tabacco e note tostate, per far focus sulla parte più sentimentale - e meno razionale - del vino. Quella che può conquistare e anche farsi meglio ricordare.
Una lectio magistralis quella di mister Chiesa. Tenuta al ristorante Gallura di Milano: cucina marina di orientamento sardo, tuffata in una contemporanea ed essenziale atmosfera smeraldina. L’occasione? Uno degli incontri ravvicinati con le francesi cuvée organizzate dal Bureau du Champagne, l’ufficio che rappresenta in Italia (ma sono molti i bureau nel mondo) il Comité Champagne. Il cosiddetto CIVC: Comité Interprofessionnel du Vin de Champagne. Che ha sede a Epernay, che riunisce tutti i vigneron e tutte le maison e che svolge un ruolo fondamentale nel difendere, diffondere, promuovere, valorizzare e sviluppare il patrimonio della denominazione.
Polifoniche cuvée
“Lo Champagne? Non è solo terroir”. Marco Chiesa esordisce ribadendo la complessità del nettare d’Oltralpe. Certo, è figlio di una vasta area vitata (34mila gli ettari totali) a circa 150 chilometri dalla metropoli parigina. Certo, è frutto di una superficie variegata, nutrita da suoli calcarei, marnosi e argillosi, suddivisa in quattro macro-aree: la Montagne de Reims, la Vallée de la Marne, la Côte des Blancs e la Côte des Bar. Certo, è scandito in 320 cru, di cui 17 grand cru e 42 premier cru. Ma lo Champagne è molto di più. “È talento, passione, esperienza, sperimentazione. È un vino unico. Fatto da tanti vini”, precisa Chiesa. Che punta i riflettori sull'arte dell’assemblaggio. E sulla capacità dello chef de cave del creare la cuvée perfetta. Quella che meglio sappia incarnare lo stile inconfondibile e riconoscibile di una maison. “Per questo una delle componenti fondamentali risulta il tempo. No, non quello dell’invecchiamento. Tempo inteso come intuito visionario. Per capire come potrà essere un vino fra due anni o più”.
Insomma, un tipo dall’identità poliedrica lo Champagne. Per questo Marco lo considera e lo tratta al pari di una persona. Mettendone in luce le attitudini. In un tasting che elegge ad attori quattro differenti cuvée, quattro pietanze firmate dal giovane chef Giovanni Zucca e quattro iconici “sentimenti”.
L’intelligenza del perlage
Trasparente. Pulito. Diretto. Uno Champagne indubbiamente intelligente il Blanc de Blancs griffato Delamotte, casa fondata nel 1760 e situata a Mesnil-sur-Oger, grand cru della Côte des Blancs. Un vino primo della classe, ma non per questo “secchione” e noioso. Anzi. Un vino luminoso e illuminato, tonico e acuto. Se fosse un musicista? “Sarebbe Johann Sebastian Bach”, puntualizza Chiesa. Chardonnay allo stato puro, ma di diverse annate e con l’aggiunta del 10% di vini di riserva. Il suo profilo? Minerale e gessoso, per via del terreno dal quale giunge. Composto da granelli di calcite provenienti dagli scheletri di microorganismi marini. In etichetta: RM, récoltant manipulant. A significare che la cave utilizza solo uve di proprietà.
In tandem? Un piatto intelligente pure lui. Espansivo, estroverso e conviviale. In grado di farsi comprendere immediatamente: il fritto di gamberi, calamari e merluzzo. Semplice. Ma solo in apparenza. Essenza e incarnazione della materia prima. Che deve eccellere in qualità e freschezza.
La sensualità nel calice
Carnosa, rotonda, polposa e decisamente sensuale è invece La Cuvée targata Laurent-Perrier. Una grande maison, fondata nel 1812, con sede a Tours-sur-Marne, altro villaggio grand cru. Uno Champagne dorato e brillante, icona dell’assemblaggio e ambasciatore dello stile raffinato della maison. Un ensemble di chardonnay (per la maggioranza), pinot noir, munier e vin de réserve. Provenienti da oltre cento cru. Per completare l’accordo perfetto. Che comunica al palato ricchezza sferica e complessa. Segni distintivi? Il suo essere Brut, ossia il suo vantare una bassa concentrazione di liqueur de dosage, aggiunto dopo il dégorgement.
Uno Champagne dal corpo pieno e intenso. Quasi da toccare, oltreché da annusare e sorseggiare. Proprio come l’ostrica servita in abbinamento. Seducente e intrigante pure lei. Con alga wakame e acqua di cetriolo a renderla ancor più fascinosa. “Mi torna in mente un dipinto: Le dejéuner d’huîtres di Jean-François de Troy, datato 1735. Nobiluomini che si incontrano a mangiar ostriche e a bere Champagne dopo la caccia. Il tappo vola. Molti ne seguono la traiettoria con lo sguardo. Per fortuna è cambiato tutto”, commenta Marco.
L’entusiasmo al sorso
Perlage vivace ed esplosivo per il Pol Roger Brut Réserve, originario di Epernay. Dove l’esclusiva maison ha sede, in via Winston Churchill. Statista che amava le etichette della casa. Come questa, mélange in parti uguali di pinot noir (a dare struttura, corpo e potenza), meunier (a conferire rotondità e nuance fruttate) e chardonnay (a regalare aromaticità, leggerezza e freschezza). Uno Champagne generoso e armonioso. Che si fa notare fra la folla. Per la sua joie de vivre.
Così come effervescente e gioiosa è la fregula sarda risottata. Preziosa di gambero rosso di Mazara del Vallo e di un’emulsione dello stesso crostaceo. Una vivanda densa d’energia. Vitale, ariosa e vigorosa.
La passione è rosé
Sì, in Champagne è permesso. Aggiungere vino rosso a una base di vini bianchi per ottenere un rosé. Del resto, ogni regola ha la sua eccezione. E questa dà ottimi risultati. Come nel caso del Collet Brut Rosé: chardonnay, pinot noir e meunier (più vini di riserva) a tessere una tela a trama armonica e appassionata. A tratti quasi impetuosa. Una cuvée che è come un fiume in piena. Luminosa e inarrestabile. Fatta d’anima e corpo. Immaginario e materia. Seta e velluto. Nata ad Aÿ, in una coopérative de manipulation, che elabora vini usando le uve dei soci conferitori.
Nel piatto: burger di salmone con salsa allo yogurt dalle lievi note speziate. Passionale pure lui. Rosa pure lui. Bocconi pieni, coinvolgenti.
Una degustazione inedita. Dallo morale precisa. Ossia che non ci più essere uno Champagne migliore di un altro, bensì uno Champagne per ogni singola situazione. Anche emotiva. L’importante? “Non rovinare tutta la poesia facendo roteare lo Champagne nel calice”, Chiesa sentenzia. Mentre presenta il suo ultimo libro: Champagne reloaded. Cronaca di un successo inaspettato, by Trenta Editore. Per scoprire il genio e la follia del vino più noto al mondo.