Un “Locale Storico”. Modernissimo. Perché ha saputo mantenere la memoria, attualizzandola. Perché è riuscito a conservare lo charme di ieri, rendendolo contemporaneo. Perché fa onore alla tradizione meneghina, ma non si esime dall’allungare lo sguardo verso nuove frontiere culinarie. Perché omaggia il passato, non dimenticando di fare una promessa al futuro: proporre un luogo saturo di fascino, ma dal twist dinamico. E così il Don Lisander si ripresenta, più in forma che mai. Rimanendo lì dov’è nato, nel 1947: all’interno della settecentesca cappella di Palazzo Trivulzio, il cui giardino fa da sfondo al patio del ristorante. Scenario per pranzi e cene d'estate. Nel cuore di Milano.
Sì, perché il Don Lisander se ne sta lungo quella via Alessandro Manzoni - l’insigne scrittore al quale è palesemente devoto - che fa da ponte fra la Galleria Vittorio Emanuele II, il Teatro alla Scala e via Montenapoleone. È lì, eppur non si vede. Quasi timido, immerso nella sua bella corte. Bisogna cercarlo, seguire l’indicazione che conduce al suo ingresso ed entrare. Nella splendida sala-salotto. Intima, riservata, ovattata. Quasi mistica in quel suo essere concentrata in un solo ambiente (di una cinquantina di coperti), dominata da un “pulpito” celante la cucina. Mentre il legno domina lo spazio, nutrito dalle foto in black & white di Milano, illuminato dal candore dei tovagliati e reso seducente dal fulgore di lampade perpendicolari ai tavoli. Profilati da divani e ampie sedute. Un luogo che pare un “coro”, reso sacro dall’inchino all’alta qualità.
Del resto, il patron Stefano Marazzato conosce bene il valore del bello. Lui, che ha lavorato nel mondo del lusso e che da qualche anno guida il Don Lisander. Lui che non ha certo intenzione di tradire le radici ambrosiane, ma neppure di rimanere ancorato a quel che è stato. E la scelta di uno chef come Filippo Cavalera non fa che giovare all’ambiziosa mission. Giovane ma di carattere Filippo: classe 1992, cresciuto alla scuola In-presa di Carate Brianza e ora qui a tenere le redini di una carta poliedrica. Rispettosa dei cult lumbard, ma pronta a innovarsi.
Ecco allora i mondeghili; l’insalata di nervetti con crema di patate, fagioli e bagnetto verde; il risotto e la costoletta alla milanese; la zuppa di cipolle gratinata; l’ossobuco con risotto allo zafferano; e la cassoeula (il mercoledì). I must, che qui si penserebbe di trovare. E che si possono ordinare.
Ma poi si fanno largo altre pietanze. Decisamente più glocal. Come le capesante dorate con patate dolci, sedano rapa, manioca croccante e liquirizia; i paccheri Verrigni ripieni di stracotto d’asino gratinato; il baccalà impanato al panko con crema parmentier, acciughe e cime di rapa; e i cappelletti alla farina di castagne, selvaggina da piuma, castagne glassate e tartufo bianco.
Ed è con la selvaggina da piuma che Cavalera si cimenta con audacia e coraggio. “Forse questo piatto lo inserirò in carta”, dichiara, presentandolo in anteprima, in occasione della serata di debutto della “nuova era” del ristorante. Una scacchiera-terrina multicolor, in cui tre pâté (di fegato d’anatra, oca e piccione) giocano con tre gelatine di frutta (di lamponi, mirtilli e arance rosse), complici il burro e il brandy. E, a lato, il pan brioche tostato. Traduzione: il jazz in una portata.
Nel calice? Il brillante ed esuberante "Saignée della Rocca", presentato in magnum. Ossia il cruasé dell’Oltrepò Pavese secondo la cantina Conte Vistarino - Tenuta di Rocca de’ Giorgi: una maison storica, anzi, “dal 1850 la casa del Pinot Nero”. Un’azienda tuffata nei paesaggi collinari della Valle Scuropasso e guidata dalla contessa Ottavia Giorgi di Vistarino, ospite speciale della soirée. Fiera di questo pinot nero esaltato dal metodo classico: aristocratico, pieno, fragrante e folgorante. Setoso come una rosa - di cui porta il colore -, croccante come i frutti rossi, dei quali eredita il sentore. Un grande rosé, anticipato da un più dorato e minerale "Cépage", summa di pinot nero, chardonnay e riesling renano. Ouverture della cena.
E dopo lo scacco royal? I ravioli di ossobuco, sintesi e sinestesia della milanesità: una pasta fresca ripiena di crema di risotto alla milanese, inondata dalla salsa ridotta degli ossibuchi. Con corredo di aromatiche cialdine crunch, a ricordare la gremolada. Ma con piglio rock. In tandem: un altro pinot nero assoluto di casa Giorgi di Vistarino. L’elegante cru “Bertone”, annata 2015.
Ma poi l’anatra torna. A esibire il suo petto in rosa. Visto che la duck viene cotta a bassa temperatura, rosolata dalla parte della pelle, nappata con jus di vitello e accompagnata da cipolle borettane glassate, terriccio di caffè, farina di castagne e fave di cacao e animelle fritte. Una portata dalla forte personalità, ideale con un vino di razza come il “Pernice” millesimo 2013, sempre un inno al pinot nero, sempre di Conte Vistarino. Austero e autorevole.
Infine, il dessert: la mezza sfera di cioccolato e castagne. Un dolce invernale, che non trascura freschezza e piacevolezza. Ideale in accoppiata col Sangue di Giuda “Costiolo” 2017. Barbera, croatina e uva rara a rincorrersi in un nettare rubino, amabile, armonioso e solare. Un simbolo dell’Oltrepò.
“Desideravo svelare il nuovo corso del Don Lisander”, precisa mister Marazzato. La promessa è stata più che mantenuta.