“Io non mi considero bravo. Cerco semplicemente di fare del mio meglio. Ogni giorno. Senza mai essere la copia di nessuno. Perché so di poter realizzare cento cose, e cento cose sempre diverse”. È umile ma ambizioso, sensibile ma anche testardo, cocciuto e caparbio Cristian Marasco. “Io la testa la picchio contro il muro. Finché non si spacca”. Del resto lui sa quel che vuole. E sa di volersi e potersi distinguere. “Non mi è mai piaciuto essere un numero”, afferma. Mentre i numeri li fa, eccome. Nei tre ristoranti di famiglia che portano lo stesso nome: La Grotta Azzurra. A partire da quello storico, aperto nel 1982 a Merate da papà Crescenzio e da mamma Gigliola, fino a quello di Bonate Sopra (in provincia di Bergamo), inaugurato nel 2013, passando per il più recente di Garlate. Affacciato sul lago omonimo e gestito dalla sorella Silvia.
“Ma la casa madre è questa. Anzi, è la mia casa, il mio asilo, la mia scuola, perché io qui ci sono cresciuto”, racconta Cristian, facendo riferimento alla grande insegna meratese. Che conta 220 coperti all’interno e nella veranda, e ben 150 nel rigoglioso giardino. Insomma, un locale che macina. “Pensare che quando lo acquistarono i miei genitori non era altro che un bar con sala biliardi da quaranta posti”, rammenta il pizzaiolo. Compiaciuto dei risultati ottenuti. Con pazienza, sacrificio e tanta determinazione. “Il segreto di un bravo pizzaiolo è quello di essere costante nel tempo. Dodici mesi all’anno”, precisa Cristian. Affiancato nell’avventura dal fratello Mario (in cucina), dalla moglie Patrizia e dalla cognata Simona (in sala). “Agli impasti ci sono io. In prima persona. Finché avrò voglia e passione di fare questo mestiere non delegherò mai”.
E a far gli impasti Marasco - classe 1978, radici campane e natali in quel di Lecco - ha iniziato sin da piccolo. “Certo. Qui alla Grotta Azzurra facevo il cameriere, preparavo i caffè, portavo le birre. Ma prendevo pure la cassetta dell’acqua e ci salivo sopra per arrivare al bancone e far le palline delle pizze. A 13 anni, una sera, ho messo a punto addirittura un centinaio di pizze. Tutti scommettevano sul mio futuro di pizzaiolo”, racconta Cristian. Che non delude la famiglia. Anzi. Appena maggiorenne ha occasione di partecipare al Campionato Europeo di Pizza a Madonna di Campiglio. E lo vince. Con l’antesignana della “Lumbard!”, pizza che oggi inanella fiordilatte del casaro, gorgonzola dolce, taleggio, grana padano grattugiato e carpaccio di polenta. “Al mio ritorno fui accolto con una gran festa. Da lì, l’inizio della fine. Nel senso che il mio ego crebbe, partecipai a tanti concorsi, vinsi tante volte. Ma versai pure tante lacrime”. E le foto con medaglie, coppe e trofei in bella mostra all’ingresso confermano lo spirito agonistico di Marasco. Sempre in competizione. Soprattutto con se stesso.
Tanti sorrisi e tanti pianti. Ma pure la grande soddisfazione di essere ricevuto da Papa Karol Wojtyla nel 2000, in occasione del Giubileo del Pizzaiolo. “Per questo ho voluto chiamare la mia primogenita Carol. Mentre è stato Papa Francesco a baciare il mio piccolo Gabriele”, ricorda Cristian. Fiero di ricevere, nel dicembre 2011, persino un’onorificenza quale l’Ambrogino d’Oro di Merate, per aver reso noto al mondo il paese brianzolo. Intanto, non si ferma. Studia, si applica, approfondisce la materia pizza, frequentando corsi tenuti da importanti lievitisti. Intuendo la forza, il valore e il futuro del lievito madre. Studia e insegna Cristian. Tenendo lezioni in “casa” per conto della Scuola Italiana Pizzaioli di Caorle e successivamente persino per i ragazzi - col 100% di disabilità - di Casa Amica, locale cooperativa sociale. “Li facevo giocare a far la pizza. Ma alla fine sono stati loro a insegnare a me: che la vita va presa con leggerezza”, dice Marasco. Orgoglioso di aver sostenuto attivamente il centro. “Qui alla Grotta Azzurra avevo addirittura messo in carta la 'Pizza Amica', ideata in collaborazione con queste persone meno fortunate. E ora vorrei fare qualcosa per due giovani che soffrono di autismo. Mi piacerebbe raccogliere fondi”.
Un pizzaiolo dinamico. Laureato all’Università della Pizza di Vighizzolo d’Este ed entrato a far parte dei Petra Selected Partners, l’esclusivo circuito voluto da Molino Quaglia per premiare il meglio dell’arte bianca. Un pizzaiolo in costante fermento e in perenne aggiornamento. Risoluto, determinato e coraggioso. Capace di non fermarsi davanti a nulla. Men che meno davanti alle sfide. Come quella di protrarre lievitazione e maturazione dell’impasto sino a 96 ore. “Un impasto nutrito dal lievito madre, prima che possa attivarsi al massimo, necessita di almeno due giorni. Ecco perché il mio arriva sino a quattro. Devi concedergli tempo. Il riposo e l’attesa regalano più gusto alla pizza. Che così risulta più leggera e digeribile”, spiega il patron. Complici l’acqua - né troppo dolce né troppo dura - di Merate e il sale marino di Trapani, un Presidio Slow Food. “Pochissimo sale. Perché non deve essere lui a dare sapore alla pizza”.
Un impasto profumatissimo (del peso di 220 grammi) per una pizza estrema. Cui concorre un blend personalissimo di farine: le macinate a pietra Petra 1 e Petra 3, la Unica e la Petra Bio 1111. Il risultato? Una pizza sui generis, che si distingue dal resto. “Sì, quando iniziammo, proponevano la classica napoletana. Anche perché i miei genitori furono i primi a portare a Merate la cucina campana, fatta di tanto pesce, sauté di cozze e calamari fritti. Poi, negli anni Ottanta-Novanta, si impose la pizza modello Willy: bassissima e sottilissima. Per questo ho voluto trovare la giusta via di mezzo. Raggiungendo anche l’assoluta digeribilità, grazie alle 96 ore di pazienza. Dopotutto è come fare un buon sugo al pomodoro. Devi avere la pentola grande, il fornello piccolo e molte ore a disposizione. Oppure? Puoi avere la pentola piccola, il fornello grande e cuocere tutto in poco tempo. Ma il risultato non sarà quello ottimale”, puntualizza saggiamente Cristian. Che ben ricorda i succulenti ragù di nonna Nunziatina. Sua mentore e musa.
Pizza 96 ore: il marchio di fabbrica di Marasco. Che non dimentica certo variazioni sul tema impasto. Proposto in altre sei versioni. In tutti e tre i locali. Voilà il “verace napoletano a modo mio”, a lievitazione mista (lievito madre e lievito di birra), cui concorre la farina di grano tenero di tipo “1” PetraViva; l’integrale con Petra 9, la “tuttograno” di Molino Quaglia; quello che elegge il grano khorasan kamut; e quello al farro monococco bio (la farina 0415, per dirla secondo il codice Petra). A cui si aggiunge un impasto cereali oriented, grazie a Petra 1, Cerealè e Bonsemì. Una base nutrizionalmente ricca e salutare, che vanta la presenza di fiocchi d’avena, crusca di grano e farina di segale, godendo pure delle virtù dei semi di girasole, miglio, lino e sesamo. Last but not the least, l’impasto novità della Grotta Azzurra: quello con Petra Evolutiva, la farina simbolo della biodiversità, nata dal felice incontro fra i mugnai Quaglia e i contadini di Simenza - cumpagnìa siciliana sementi contadine. Una farina figlia di un miscuglio di semi d’antica origine mediterranea, adottato dalla Sicilia, adattato al clima della Sicilia e coltivato in regime bio. In modo da divenire una popolazione di grani autoctoni, che cambia di anno in anno, a seconda delle condizioni metereologiche. Per una farina millesimata, come il vino.
“Una farina talmente particolare che dovevo farla spiccare nella mia proposta. Affinché non si perdesse nel mare magnum dell’offerta”, spiega Marasco. Che per lei ha studiato a un impasto - steso nel padellino - a doppia lievitazione e a doppia cottura (prima a bassa temperatura, cui segue una rigenerazione nel forno elettrico). Così da risultare sofficissima all’interno e croccantissima all’esterno. “Volevo una pizza capace di colpire i sensi. Servita rigorosamente in sei spicchi, pensata per essere condivisa e corredata di carta d’identità”, precisa il patron. Che completa la sua creatura contemporanea con pochi ingredienti, semplici e diretti. “Certo, voglio che questa pizza riprenda un po’ quella che faceva in casa mia nonna. Un po’ alta e vaporosa, farcita con pomodoro e poco altro. Perché il futuro è tornare indietro”.
Quattro i gusti in carta. Che variano circa ogni due mesi. Per creare un certo turnover. Ecco allora la “Suprema”, con antico pomodoro napoletano spadellato, mozzarella di bufala campana, basilico, origano siciliano e olio extravergine. La “Golosa”, con pomodoro del piennolo, burrata pugliese, rucola selvatica e prosciutto di Parma 18 mesi. La “Capperi che pizza”, con filetti di alici di Cetara e capperi di Salina. E la “Delicata”, con burrata di bufala campana, tartare di gambero rosso di Mazara del Vallo e culaccia. “Ovviamente queste non le propongo da asporto. Perché l’esperienza si deve fare rigorosamente seduti a tavola”.
E il resto della carta? Uno scrigno di proposte. “Prima le pizze erano 150, ora sono riuscito a ridurle a 70”, commenta Cristian, con la nostalgia di chi ha dovuto rinunciare a qualcosa. Ma con la consapevolezza di aver agito con coerenza. Le referenze sono infatti suddivise a seconda della tematica. In modo tale da meglio orientare il commensale. Così, è fra le “Pizze della Casa” che si fa notare la “Grotta Azzurra”, con pomodoro, fiordilatte del casaro, polpo, cozze, vongole e prezzemolo. Anche in versione 2.18, con code di gamberi e tarallo napoletano sbriciolato.
E per rimanere in linea con l’acqua azzurra, non mancano le “Pizze del Marinaio”. Vedi la “Sotto Scoglio”, preziosa di un’insalata ittica, dell’olio aromatizzato all’aglio rosso di Nubia e del prezzemolo.
E vedi pure la “Carpaccio di Mare”, con pomodoro San Marzano dell’Agro Sarnese-Nocerino, burrata, rucola, branzino e salmone marinati e pesce spada affumicato.
Mare. Ma anche “Pizze della Terra”. Come la “Baila”, summa green di spinaci al vapore, melanzane e zucchine alla griglia, peperone arrostito e grana padano.
Cinque invece le declinazioni della “Margherita”. E quattro le “Marinare”, fra le quali quella ai quattro pomodori. Poker di San Marzano, antico napoletano, piennolo del Vesuvio e ciliegino. Per un intenso inno al tondo ortaggio.
E poi? Ci sono i grandi classici. Quelli che guai a eliminare: la “Non lo So”, con la colatura di alici di Cetara”; la “B.B. 2000”, con i bocconcini di mozzarella e i porcini trifolati; e la “Partenopea”, con gli immancabili friarielli e salsiccia.
Senza dimenticare le “Pizze Crudité”, che eleggono sempre a protagonista un ingrediente posizionato fuori dal forno, e “Le Speciali”, ossia quelle che Cristian ha presentato ai vari concorsi. Come la “Alice”, con piennolo, provola affumicata agerolese e pancetta a caldo; e la “Reale”, con crema di tartufo, fiordilatte, brie, carpaccio di manzo, rucola e scaglie di grana padano.
Un omaggio al territorio sono invece le “Pizze delle Valli”, fra cui la già citata “Lumbard!”, ma pure la “Quattro Formaggi” new style, con fiordilatte, gorgonzola dolce, taleggio e grana padano. E per chi ama il piccante? Le “Indiavolate”. “Malafemmina” a far da capofila, con la ’nduja di Spilinga. Il cui vigore viene stemperato dalla dolcezza della ricotta vaccina.
Il bello? Che tutte le pizze possono contare su un piatto riscaldato per bene, pronto ad accoglierle. E che tutto è organizzato e coordinato con puntiglio e lungimiranza. Perché, come insegna Marasco: “C’è differenza fra nascere e diventare ristoratori. Se nasci ristoratore hai l’occhio allenato sin da piccolo”. E a Merate, fra capienti saloni in stile navy, un acquario gigante e un maxi dehors, la competenza è di casa. Anche quando si tratta di cucina. Nelle mani di Mario, fratello di Cristian. Che mette in menu gli spaghetti in crosta di pane. Traduzione, spaghetti allo scoglio cotti in forno, in un coccio, ricoperto da un disco di pasta della pizza. Che poi serve per far la scarpetta.
E per dessert? Cheesecake ai frutti di bosco homemade, oppure la monoporzione “Cappuccino” griffata Sal De Riso. Per un finale d’autore.
“Ho la consapevolezza di non andare a genio a tutti”, ammette Cristian. A noi Marasco piace molto. Per la sua serietà, per la sua professionalità, per il suo essere autentico, per la sua capacità di sorridere sempre e per quella sua buona dose d'ambizione. Che muove l’uomo all’evoluzione.
Foto di Francesca Brambilla e Serena Serrani