“Questi sono il Lozzo, il Cinto e il Rusta. Quello è invece il Monte Venda. L’unico che si possa definire monte, perché alto 604 metri. È lui che divide il versante nord, dal clima decisamente subalpino, dal versante sud, indubbiamente più mediterraneo”, spiega, puntando il dito verso l’orizzonte Lucio Gomiero, patron di Vignalta, vitivinicola azienda di Arquà Petrarca. “Sì, sono tutti coni questi colli. Figli di quel fenomeno noto come magmatismo veneto, ma differenti, per nascita e natura, dai Lessini e dai Berici. Gli Euganei sono fatti di rocce molto particolari, riolite e trachite. La stessa pietra che riveste Piazza San Marco, a Venezia”, continua Lucio, dal cocuzzolo (si fa per dire) del Monte Gemola. Là, dove si distende Villa Beatrice d’Este: antico monastero benedettino (voluto da Beatrice I d’Este), divenuto poi residenza e ora sede di un museo naturalistico.
“Noi, proprio sul versante del Gemola, abbiamo un vigneto. È da lì infatti che proviene il nostro cru, un taglio bordolese di merlot e cabernet franc. Che è ben diverso dal carménère. Anzi, è il padre del carménère. Vitigno tipico del Médoc che arrivò sin qui, al Castello di Lispida, dai conti Corinaldi. Praticamente oggi è presente in Cile e in Veneto. Noi lo coltiviamo nella zona di Arquà, su scaglia calcarea. E produciamo anche un vino, utilizzandolo in purezza”, continua orgoglioso Lucio. Tracciando il profilo glocal di un terroir che ha saputo rispettare se stesso, pur aprendosi al mondo. Accogliendo - soprattutto post fillossera - vitigni internazionali. Cabernet sauvignon incluso (se ne parla bene nel volume di Salvatore Mondini I vitigni stranieri da vino coltivati in Italia, custodito nella Biblioteca Internazionale La Vigna di Vicenza, il cui consiglio scientifico è presieduto dal professor Danilo Gasparini).
Colli Euganei, tuffati in un’inedita landa padovana. Colli romiti. Colli singoli e singolari. Che non formano una catena, ma che si ergono in solitaria, spuntando come scogli in un mare di verde. Colli diversi. Emersi in seguito a un fenomeno eruttivo e all’emissione di materiali lavici risalenti a circa 35 milioni di anni fa. Quindi, non vulcani nell’accezione stretta del termine (non presentano crateri). Ma profondamente caratterizzati da una matrice vulcanica.
Colli dall’immensa biodiversità. Colli nutriti da viti, ulivi, querce, castagni, cardi selvatici, capperi, fichi d’India nani, melograni, noccioli, mandorli, corbezzoli, nespoli, giuggioli e ginestre. Colli abitati dall’upupa e dall’allodola, dal gufo e dal pettirosso, dal cervo e dal tasso, dalla volpe e della donnola. Colli sinuosi e irti, morbidi e arditi (basti pensare alla parete arrampicata addicted di Rocca Pendice, nel comune di Teolo). Colli dal microclima variegato. Colli divenuti Parco Regionale, a conferma della loro importanza ambientale. Colli custodi di bellezza. Colli generosi. Pronti a dispensar distensive acque termali e nettari rigeneranti. Tutelati e valorizzati da un consorzio attivo e dinamico, presieduto da Marco Calaon.
Sul poggio ameno
“Noi stiamo nel mezzo. Da questa parte c’è l’Abbazia di Praglia. E da quest’altra c’è Villa dei Vescovi, a Luvigliano di Torreglia”, spiega Roberto Gardina, titolare della maison Quota 101 (nonché presidente della Strada del Vino Colli Euganei). “Non siamo agricoltori. Ma quando vedemmo questo luogo ce ne innamorammo subito”, svela lui. Costruttore edile in quel di Rovigo e fondatore dell’azienda vitivinicola che si trova a 101 metri di quota. “Siamo qui dal 2010. E ora anche le mie figlie Silvia e Roberta sono coinvolte in questa avventura”, continua fiero. Guardando il panorama. E mostrando la nuovissima cantina, tutta in larice naturale e piena di luce. Preziosa di cento metri quadrati di fruttaio. “Che può trasformarsi in sala riunioni. Nel costruirla abbiamo avuto rispetto per l’ambiente. Mantenendo, per esempio, i bambù che stanno qui davanti. Così fanno ombra. Ma abbiamo pure fatto una buona coibentazione e avuto cura dei riverberi. Perché anche chi lavora deve stare bene”.
Una cantina giovane, scattante, Biodiversity Friend, biologica e in costante divenire. Aperta all’ospitalità, di cui si occupa Andrea Monico. L’uomo marketing e il gran cerimoniere delle degustazioni. “Qui abbiamo 7,5 ettari di vigne. Che hanno circa una quarantina d’anni. Prevalentemente destinate alle uve a bacca bianca. Mentre a Baone abbiamo altri 9 ettari, più vocati alle uve rosse. Senza contare i 444 ulivi”, puntualizzano Roberto e Andrea. Mentre presentano il frizzante e non filtrato La Gobbetta. Garganega in purezza, fatta rifermentare con il mosto del fior d’arancio passito. “A Villa dei Vescovi c’è un affresco che ritrae un putto con l’uva. Probabilmente garganega”, racconta mister Gardina. “Tra l’altro cerchiamo di lavorare molto con i lieviti indigeni. Ma si sa, nel vino ci vuole molta pazienza. Ora stiamo sperimentando un raboso vinificato in bianco. Grazie al metodo classico”.
Intanto, in cantina si possono assaggiare l’estroso e complesso Manzoni Bianco, maturato in parte in legno e in parte in acciaio; il più schietto Tai; il minerale Chardonnay e il brioso, delicato e profumato Serprino. Nato dall’uva serprina (come si usa chiamarla qui), un biotipo riconducibile alla glera. E ancora il Poggio Ameno, assolo di cabernet sauvignon, piacevole come il nome che porta; il Silvano, merlot tout court; e l’Ortone, merlot, cabernet franc e cabernet sauvignon, per un vino intenso e profondo. Da gustare con l’agnello, ascoltando Perfect Day di Lou Reed e guardando Pulp Fiction di Quentin Tarantino (sì, ogni vino ha il suo abbinamento culinario-musicale-cinematografico).
Non certo dimenticando il Fior d’Arancio, preziosa docg (l’unica dei Colli Euganei) a base di moscato giallo. Un vino esuberante, dorato, assolato, ambrato, armonioso e aromatico, proposto nelle versioni secco, spumante e passito. Che qui prende il nome de Il Gelso di Lapo. In ricordo dell’amato cane di famiglia, che adorava oziare sotto un gelso. Fra i vigneti. Mentre è dagli ulivi che giunge l’extravergine di casa. Un blend di leccino, frantoio e rasara che esibisce un’etichetta artistica. Creata dall’illustratrice Francesca Ferri.
Olio, oca, prosciutto e Fior d’Arancio
Olio extravergine. Un altro must dei Colli Euganei. Dove nasce l’autoctona oliva rasara. Protagonista assoluta di uno dei prodotti firmati dal Frantoio di Valnogaredo, a Cinto Euganeo. Fondato da Oreste Barbiero nel 1960 e oggi portato avanti dal successore Paolo, insieme alla moglie Pierangela e al figlio Filippo. Un frantoio in una barchessa: quella di Villa Contarini Piva. Dove già nel Settecento, tali nobili (che alla Serenissima consegnarono ben otto dogi) facevano olio. E dove attualmente si rinnova il rito. Completato da una serie di prelibati sott’oli (c’è anche il Bagnetto della Collina), da miele (millefiori, di acacia e di castagno) e da una linea cosmetica. Consiglio: una passeggiata fino al Buso della Casara, da cui partiva l’acquedotto romano he riforniva l’antica Ateste. Ossia la bella Este. Una delle tre città murate dei Colli. Insieme a Monselice e a Montagnana.
E se a Monselice non si deve perdere una visita al castello e a Villa Duodo, col suo corredo di cappelle lungo il Colle della Rocca (un percorso devozionale progettato da Vincenzo Scamozzi), è a Montagnana che ha sede il Prosciuttificio Attilio Fontana. Che mutua il nome dal suo founder, nel 1919. Una lunga storia di famiglia, di passione e di attenzione. Nel saper fare un Prosciutto Veneto d’eccezione: roseo e vellutato. Stagionato (anche per 21 mesi), tatuato col sigillo metallico del consorzio (il cui presidente è Attilio Fontana “nipote”) e vestito da un’etichetta dal tono verde pastello.
Cultura del maiale, dunque. Ma anche dell’oca. “Negli ultimi sessanta giorni di allevamento aggiungiamo latte e miele alle farine utilizzate per la loro alimentazione. Così la loro carne risulta saporita e delicata allo stesso tempo”, precisa Michele Littamé. Ormai celebre per le sue pennute, cresciute a Sant’Urbano, nella Bassa Padovana. E pure tradotte in preparazioni capaci di unire classicità e contemporaneità. Come l’oca in onto (che è pure un Presidio Slow Food): marinata per dodici ore, messa sottovuoto col suo grasso (sale e qualche spezia) e poi cotta a 72°C per sei-sette ore. Così da risultare tenerissima.
Oca perfetta con un buon Colli Euganei Rosso. Come il Serro (merlot, cabernet franc e cabernet sauvignon) by Il Mottolo, azienda di Baone. O con un merlot in purezza: il Sassonero by Ca’ Lustra, maison della Zanovello family. Che in quel di Faedo di Cinto Euganeo sorveglia 42 ettari di terreni, di cui 25 vitati (e appena sopra i vigneti più panoramici ha realizzato un vero palcoscenico naturale, che ospita concerti: l’Anfiteatro del Venda). Una maison visionaria. Che produce anche un magistrale Fior d’Arancio Passito: polposo, luminoso e croccante. Mai stucchevole. Ideale con gli zaeti. Inconfondibile anche per via dell’etichetta che porta impresso l’alfabeto dei paleoveneti. Giusto a mostrare il segno della memoria e delle radici.
“Il nostro Fior d’Arancio Spumante ha note di zagara e albicocca”, puntualizza con orgoglio Nicola, ultima generazione della famiglia Selmin, meglio nota col nome dell’azienda voluta da Guglielmo e Vittorio: Il Pianzio, con sede nel comune di Galzignano Terme. “Ma non dimentichiamo il frizzante Serprino, che si ottiene da un’uva dall’acino piccolo e dal grappolo spargolo”, aggiunge Selmin junior. E per un ottimo Fior d’Arancio Secco? Voilà il Fiore di Gaia, targato Borin Vini & Vigne, in quel di Monselice. Un vino originale, aromatico, sapido ed equilibrato, intitolato a Gaia (dea della Terra), ricordando il dono nuziale che fece a Era. Come simbolo di fecondità.
Ma sui Colli Euganei spicca anche il vitigno moscato bianco. Da assaporare in una lucente interpretazione “secca”: il Passo delle Streghe, griffato Vigne al Colle, alla cui conduzione se ne sta Martino Benato (ma attenzione, lui fa anche un leggiadro Fior d’Arancio Spumante). Perché Vigne al Colle? Lo si legge nel sito ufficiale: “Nelle fredde e terse serate invernali infatti, guardando dall’azienda verso il Monte della Madonna, si può assistere all’incontro della luna con il colle, coronato dal luminoso diadema di stelle del Carro Minore”. Così sia.
Vo’(glia) di rinascere
“È il comune più corto d’Italia”, dice Salvatore Lovo. Un nome e un cognome ben impressi sull’etichetta di un brillante Bianco Spumante millesimato. Un nome e un cognome che identificano il capitano coraggioso di una realtà come Terre Gaie, posizionata in quel di Vo’. Dove hanno sede il Consorzio Volontario per la Tutela dei Vini Colli Euganei (nato nel 1972) e il MUVI (Museo del Vino), nonché dove si fa notare un’altra giovane realtà: l’azienda agricola biologica San Nazario, le cui redini stanno nelle mani di Sandro e Marika Zanuso.
Lui alla direzione del vino, lei alla regia della cucina. “Contiamo ben due orti, tanta verdura e tanta frutta, così abbiamo pensato di proporre una cucina vegetariana e sostenibile”, spiega Marika. Mentre serve le sue delizie in uno spazio dalle linee semplici e accoglienti (con ampio dehors per la bella stagione). Ecco allora crostini con pere, senape, noci e miele, e con hummus di ceci, rapa rossa, olive nere e rucola selvatica; crespelle ripiene di ricotta, Asiago, zucchine e pomodorini secchi, condite con crema di spinacini; e quenelle di caprino in panure di semi. Che rivestono anche le polpette di zucchine, ricotta e menta, e topping di crema di zucca.
Pietanze green, che ben si accordano coi nettari euganei. Dal Dulcamara (sauvignon blanc e garganega) al Ruzante (assolo di merlot), sino al Prà dei Mistri, ossia “Prato dei Venti”. Un carménère in purezza. “È un vitigno ostico. Per farlo cerco sempre filari dalla buona esposizione. Ma è un vino che, a volte, ti può voltar le spalle. Per questo nonno Rinaldo gira le terga”, dice Sandro. Spiegando la grande bellezza (e la saggia ironia) che nutre le loro etichette. Disegnate da Marika. Che ama molto i folletti. E che ha ritratto il nonno col suo inseparabile cappello.
Giuggiole e poesie
Non nacque ad Arquà (lui era aretino). Ma vi abitò negli ultimi anni di vita. E vi morì (nel 1374). Affidandole il cognome e le spoglie, conservate in un’arca in marmo rosso di Verona, sotto il cielo di una piazza a lui intitolata: Francesco Petrarca. Il sommo poeta, incoronato con l’alloro, ricordato per il Canzoniere, per Laura, per i sonetti, per il concetto di humanitas. Ad Arquà Petrarca c’è la sua casa. E merita una visita.
Ma il borgo medievale è anche uno dei Borghi più Belli d’Italia. Per capirlo? Basta passeggiare per erte e vicoletti, respirandone la meraviglia. Meglio se con il naso all’insù. Certo, per coglier (con lo sguardo) le giuggiole. Frutto piccino, dalla forma ovale, similare a una biglia. Buono al naturale o in declinazione Brodo di Giuggiole. Un liquore-infuso dolce e piacevolissimo (complici frutti autunnali quali mele cotogne, uva e melagrana). Così battezzato e brevettato dalla veronese Montresor e in vendita nella bottega-enoteca Da Ciompa. Ma prodotto localmente anche dalla maison Scarpon, che firma l’autoctono Brodo di Arquà Petrarca. Persino in versione cream. A cui si aggiungono le confetture di giuggiole, i cioccolatini al brodo di giuggiole e le giuggiole sotto grappa.
E sono proprio le giuggiole sotto grappa uno degli ingredienti indispensabili per lo Spritz Euganeo creato da Pino Cesarotto nel suo locale: L’Enoteca di Arquà (con tanto di terrazza sui colli). “Volevamo dar voce alla poliedricità del Fior d’Arancio Spumante. Valorizzandolo in un cocktail per l’aperitivo”, spiega. Mentre mette in un ampio bicchiere (da vino) il ghiaccio, una fettina d’arancia, una giuggiola sotto grappa (emulando così l’oliva del Martini), un liquore a base grappa e lo spumante degli Euganei. Da ordinare, oppure da acquistare in kit, con tutto il necessario per preparare il drink at home.
Ma non finisce qua. Ad Arquà sono posizionate ben sette delle trentatré targhe che alimentano il Parco Letterario Francesco Petrarca e dei Colli Euganei. “È un modo per leggere questo territorio attraverso le parole di grandi scrittori. Che passarono di qui. Rimanendo colpiti dall’incanto”, racconta Claudia Baldin, una delle ideatrici e ambasciatrici del dotto parco. Che guarda il passato attraverso il cuore e gli occhi di Dino Buzzati e George Byron, di Ugo Foscolo e Percy Shelley, di Gabriele D’Annunzio e Andrea Zanzotto.
Giardini, castelli, ville e virtù
Colossale, allegorico, spirituale. Il Monumentale Giardino di Valsanzibio (da Valle di Sant’Eusebio, nel comune di Galzignano Terme) non è un semplice giardino. È un iter salvationis, un percorso di purificazione, di rigenerazione e di elevazione. Pensato per condurre l’uomo dall’errore alla verità, dal peccato all’estasi. A volerlo? Fu Gregorio Barbarigo (poi santo), in seguito a un voto solenne fatto dal padre Zuane Francesco Barbarigo per sfuggire alla terribile pestilenza del 1630. Un luogo ascetico, progettato da Luigi Bernini e fatto costruire fra il 1665 a 1696. Un mirabolante concentrato di statue, fontane, peschiere, boschetti, acque e calli di verzura. Incluso un labirinto di seimila bossi sempreverdi, la maggior parte secolari. Un dedalo nobilitante, che guida alla riflessione e alla riconquista delle virtù. Dal Portale di Diana al Piazzale delle Rivelazioni.
È invece a Battaglia Terme che si staglia il Castello del Catajo. “Che poi non è propriamente un castello. Ma una villa che sembra un castello. Una residenza considerata la reggia dei Colli Euganei”, spiega l’appassionato direttore Marco Moressa. Una dimora allagata dal fascino, fatta realizzare, a partire dal Cinquecento, da Pio Enea I degli Obizzi, famiglia di capitani di ventura originari della Borgogna. A progettarlo? Lo stesso Pio Enea, complice l’aiuto dell’architetto Andrea Da Valle. Il nome? Deriva da Ca del Tajo, ossia “la tenuta del taglio”, con probabile riferimento al canale locale, che tagliò a metà molti appezzamenti agricoli. Ma si ipotizza anche un’evocazione al mitico Catai, la Cina di Marco Polo. Alle cui mirabilia voleva ispirarsi il palazzo.
“Questo è il luogo delle feste, dell’estate, dell’ebbrezza. Qui tutto è dipinto e decorato. Qui tutto è pensato per stupire e sorprendere. Per far dire: wow. Un immenso teatro all’aperto, con il cortile seicentesco a funger da palcoscenico, la grande terrazza a divenir palco d’onore e i colli a far da scenario naturale”, continua Marco. Mentre indica i gradini a cordolo: “Servivano a condurre al piano nobile non solo le persone, ma anche i cavalli”. Facendo poi notare le sinopie - riportate alla luce grazie all’ultimo restauro - che corrono lungo il maestoso fondale del cortile. “Portano in sé il tratto dell’intenzione pittorica”. Pittura che esplode nelle sale e nei saloni, dove gli Obizzi sono ritratti come dei.
“Quest’altra terrazza e il Castel Nuovo, per esempio, vennero costruiti appositamente per ospitare i 1.220 invitati a una festa grandiosa: quella del 4 ottobre 1838. Messa a punto in occasione di una visita della corte imperiale austriaca”, spiega Moressa. Ricordando anche la successiva decadenza del Catajo e la sua rinascita. Merito della lungimiranza dell’attuale proprietario: l’imprenditore Sergio Cervellin.
Chiare, calde e termali acque
Un suolo vulcanico quello euganeo. Che non solo dispensa vini, ma pure terapeutiche acque termali. Anzi, ipertermali (e pure ricchissime di sali minerali), visto che la loro temperatura raggiunge, a bocca di pozzo, gli 87°C. “Tant’è che per utilizzarla nelle nostre piscine dobbiamo portarla a 33 gradi circa. E il gap serve per riscaldare l’hotel. In un’ottica di sostenibilità e rispetto per l’ambiente”, puntualizza Ida Poletto, la dea ex machina dell’AbanoRitz, fascinoso albergo di Abano Terme che da oltre cinquant’anni sorprende per la sua accoglienza. E per la sua assoluta personalità.
Questo albergo è una casa. Si legge sopra una porta, nella salottiera hall. Porta che dà accesso a una mostra che ripercorre - fra disegni, schizzi e foto - la nascita e la crescita dell’hotel. “Sì, questo albergo è una casa. Non è esclusivo. Bensì inclusivo”, ripete Ida. “Di solito gli alberghi sono ritenuti posti di passaggio. Invece questo è un luogo fatto di persone, di relazioni, di umanità. Qui si vive l’otium vero, quello sano, della testa. Qui si viene in vacanza, intesa come tempo vacante. Da riempire con un bagaglio di significati e di valori. E poi qui non si segue una dieta. Le cure si fanno a stomaco pieno”, continua fierissima madame Poletto. Rammentando i tre ristoranti della grande house: il White Gloves, dove si fa anche colazione e dove fa bella mostra di sé una collezione di piatti dell’Ottocento; Il Brutto Anatroccolo, ristorantino vintage nutrito dai ricordi e dalle emozioni, per una foodness zone supervisionata da Terry, sorella di Ida; e (nella stagione più bella) il barbecue nel parco (di oltre seimila metri quadrati), per un déjeuner sur l’herbe. Pieds dans l’eau delle piscine.
Acqua. Rigenerante e rinvigorente. E fango. Ricchissimo di oligoelementi, raccolto dai fondali di un laghetto di origine vulcanica (uno dei più celebri è il Lago della Costa, fra Monselice ed Arquà Petrarca), e poi lasciato a maturare nelle acque termali. Affinché si sviluppi una microflora particolare, artefice delle straordinarie virtù dell’aponiense e vellutata bio argilla. Che disinfiamma, disintossica, decongestiona e detossina. Elargendo vitalità.
“Io durante il lockdown sono sempre stata qua. Da sola. Ed è stato difficile riaprire. Tanto quando chiudere”, prosegue Ida. Felice della sua decisione di ricominciare ad ospitare. Dopottutto l’AbanoRitz è un luogo della memoria ma anche della modernità. Un hotel rétro e attualissimo. Fatto di dettagli. Di divani in velluto e di soffitti a cassettoni, di cotone e di canapa, di fazzoletti di Venini e di felpate moquette, di un antico e pregiato carrello per le carni e di dischi in vinile. Che divengono protagonisti del sabato sera al Midniht Vintage Club.
“Questa invece è la stanza della musica. Perché il nostro albergo deve essere nutrito anche dal silenzio. Per questo abbiamo voluto dedicare un’apposita room alla musica. Che parla un linguaggio universale. Comprensibile da tutti”, racconta la Poletto. Entrando in una spettacolare music hall, fra specchi, pianoforte e lampadario in vetro di Murano. “Ogni lunedì, e talvolta anche il venerdì, proponiamo piccoli concerti di musica da camera o di smooth jazz aperti alla città. Qui hanno persino suonato il violinista Uto Ughi e la flautista Luisa Sello”.
E poi c’è il quinto piano. “Lo avevamo sempre trascurato. E così ora lo abbiamo trasformato”, racconta sempre donna Ida. Accendendo i riflettori sulle otto camere creative che scorrono lungo il rinnovato floor. Sono le Super 8, divenute persino un progetto narrativo da leggere in un volumetto: scaricabile online ma pure da sfogliare realmente (lo si trova al banco della reception). Voilà la 504, la Garage Room; la 508, la Wood Room; la 510, la Recycling Room; la 511, la Flying Carpet Room; la 514, la Swan Room; la 515, la Heart Room; la 5019, la Brown Room; e la 520, la White Room. Ossia il bianco. Il candore. La purezza. La leggerezza. Il nihil illuminante.
Assaggi di patavinitas
Ma il cavallo con condottiero che appare nel logo del Consorzio di Tutela Vini Colli Euganei? “Si rifà al Monumento equestre al Gattamelata di Donatello. La statua bronzea posizionata in piazza del Santo, a Padova”, spiega Claudia Baldin. Che tutto sa della città di Sant’Antonio. Indicando il Palazzo Liviano: “Certo, è a Padova che nacque Tito Livio”. Indicando la Torre dell’Orologio, in Piazza dei Signori: “Sono riprodotti tutti i segni zodiacali, eccetto quello della Bilancia”. E fermandosi dinanzi al Caffè Pedrocchi, passando in rassegna le tre storiche sale, la Bianca, la Rossa e la Verde: “Dove si può entrare persino senza consumare”. Anche se qui bisogna assaggiare il celebre caffè Pedrocchi. Un espresso in tazza grande, servito con un’emulsione di panna e menta e completato da una spolverata di cacao. Un caffè tradotto persino in torta, grazie alla maestria del pasticcere Gianni Zaghetto, patron di un altro must patavino: la Pasticceria Racca.
“Questo invece è il Palazzo della Ragione. È qui da ottocento anni e vanta un unico grande salone affrescato, un tempo sede dei tribunali cittadini”, continua Claudia. Che abbassa lo sguardo, allungandolo verso il mercato coperto, ormai noto a tutti come Sotto il Salone. Antichissimo e super contemporaneo. Con tanto di consorzio a tutelarne la qualità (il presidente è Paolo Martin, titolare pure dell’omonima macelleria, e il direttore è Lucio Zulian). Una cattedrale della bontà, suddivisa in due navate. Pardon, gallerie. In equilibrio fra Piazza delle Erbe e Piazza della Frutta.
Una cinquantina le botteghe che si susseguono (per la maggior parte alimentari). Fatte su misura per curiosare, acquistare e assaggiare. Grazie a mini tour gastronomici itineranti. Spaziando dal baccalà mantecato della pescheria di chef Nicola Elardo alla tartare equina di Mattia Michelotto (ma di cavallo lui ha anche sfilacci e roast-beef), dai formaggi ricercati di Roberto Carpanese alla soppressa della salumeria Borsetto. Non dimenticando la pasta fresca di Fulvia Furlanis. Che nel suo Pastasuta (c’è un punto vendita anche in via del Portello) propone ravioli, tagliatelle, lasagne, gnocchi e bigoli col ragù d’anitra. Da consumare persino in loco. Placée. “Ho recuperato questo angolino coperto e mi sta dando grandi soddisfazioni”, ammette Fulvia, parlando del suo piccolo dehors sotto una volta del porticato. Resilienza patavina.
Foto courtesy del Consorzio di Tutela Vini Colli Euganei e delle pagine Facebook delle cantine e delle residenze
Alcune foto dell’Abano Ritz sono di Giovanni De Sandre