“Devo essere sincero? Prima dell’idea di fare una cena insieme mi è piaciuta moltissimo la pizza di Giorgio”, confessa Davide Caranchini: classe 1990, comasco e giovane stella di Cernobbio, col suo ristorante Materia. Sulla sponda occidentale del Lario. “Noi ogni anno organizziamo una quattro mani con un grande cuoco. Si tratta del format Spicchi da Chef. Un vero e proprio intreccio fra cucina e pizza. Ma sopratutto un’occasione di dialogo, di confronto e di crescita. Nel 2018 ospitammo Nicola Bandi dell’Osteria Il Moro di Trapani. E quest’anno abbiamo deciso di accogliere Davide”, puntualizza orgoglioso Caruso. Casertano, millesimo 1983 e alla guida delle tre insegne milanesi di Lievità: in via Pasquale Sottocorno (dove è andata in scena la cena), in via Ravizza e in via Varese. Ma non da solo. Con un poker di amici-soci: Andrea e Gianmaria D’Angelo, Giovanni Grossi e Lorenzo Santin.
È nata così una serata decisamente rock. Giocata sulle note dell’audacia, del coraggio e delle nuove frontiere da conquistare. “Sì, ho vichinghizzato la pizza napoletana”, dichiara fiero Davide. Che, lavorando con marinature e fermentazioni, ha innestato il suo rigoroso spirito nordico sull’anima più verace e solare degli impasti di un campano come Giorgio. Facente parte dei Petra Selected Partners, il prestigioso circuito voluto da Molino Quaglia.
“Prima di aprire il ristorante ho fatto un attento studio antropologico del territorio dove sono nato, dove abito e dove lavoro. Perché non avevo intenzione di fare cucina contemporanea semplicemente proponendo un risotto al pesce persico 2.0. Che senso poteva avere? Volevo invece studiare pietanze dalla spiccata attualità ma con un forte ancoraggio alle tradizioni, alla natura e alla cultura di queste latitudini. Che non sono poi molto differenti da quelle danesi e svedesi. Per capirci. Io non seguo la scia di fermentati e fermentazioni perché sono di moda. O perché ho lavorato al fianco di René Redzepi. Io onoro le fermentazioni perché fanno parte del vissuto della mia terra. Dove si usa anche salare ed essiccare per poter conservare. Basti pensare al missultin. Anzi, noi con l’agone ci facciamo persino il garum di lago”, spiega Caranchini. Che porta avanti la filosofia concreta e minimalista di Materia insieme alla Sberna crew: Ambra (compagna di Davide), Marco (fratello di Ambra) e Luca (cugino degli Sberna bros).
Bruschetta per iniziare. Messa a punto con la farina di tipo “1” Petra 3. Sopra: crema di fegato di piccione, carcadè e gel di scalogno. In equilibrio fra nuance acide e amaricanti. Al fianco? Un bignè, farcito con insalata di cavolo rosso marinato, midollo affumicato, latte di mandorla amara e caviale di aringa. Un piatto (senza il bignè) presente in carta da Materia.
A seguire? La montanara. Una pizza fritta, certo. Ma completamente fuori dagli schemi. A partire dal colore, che dimentica il classicissimo rosso (del pomodoro) per divenire verde. Complici un’insalata di anguilla affumicata e limone bruciato. A lenire con la sua agrumata acidità la grassezza del pesce. “Gli impasti della bruschetta, del bignè e della montanara sono tutti realizzati con Petra 3. Giocando con le stesure. Per rendere la pasta più o meno spessa”, precisa il pizzaiolo Giorgio. Che per “La Non-Margherita” si allontana dai canoni, prediligendo i profumi e la fragranza del farro monococco integrale bio.
“La Non-Margherita è un po’ un remix della mia pasta al non pomodoro. Del resto è bello anche poter scardinare certi concetti”, prosegue Caranchini. E Caruso vede felicemente sublimare la sua pizza in una portata dall’intrigante tono violaceo: salsa di prugne fermentate, fiordilatte di Agerola, parmigiano reggiano di 24 mesi e olio al basilico. Una Margherita che ha osato assumere altre sembianze, senza perdere né identità né dignità.
Pensata ad hoc per la serata invece la pizza itinerante fra Italia e Giappone, Oriente e Occidente: la “ITA - JPN”. Alla base, sempre l’impasto “signature” di Giorgio con Petra 3. Pronto ad accogliere mortadella, fiordilatte e ricotta di Agerola, miso di pistacchio fermentato, olio alla menta, timo al limone e pepe sansho. Umami, acidità, freschezza e una piacevole piccantezza a correre una staffetta fra i morsi.
“Bon bon di zucca” per dessert. Per rimanere coerenti con gli impasti. Per non perdere il filo del discorso. E per non essere sdolcinati. Valorizzando l’intrinseca dolcezza della zucca. Che si fa spuma vaporosa. Per riempire un friabilissimo airbag. Cui concorrono pure un pralinato di semi di zucca e un po’ di scorza di limone.
Ad accompagnare tutta la degustazione? Una collection di Trentodoc - anche in magnum - di casa Ferrari: l’elegante “Maximum Rosé”, avvolgente compendio di pinot nero e chardonnay; il luminoso “Maximum Brut”, brillante blanc de blancs dalle note morbide e delicate (la prima etichetta prodotta da Giulio Ferrari, agli inizi del Novecento); l’iconico e sensuale “Perlé”, ottenuto da un’accurata selezione di uve chardonnay, raccolte a mano; e l’aromatico e cremoso “Maximum Demi-Sec”. Perfetto per il fine pasto. Anche quando si vorrebbe ricominciare daccapo.