“La nostra è la storia di un incontro. Quello fra due persone che cercavano la qualità”. Così Antonio Michael Zaccheo descrive la genesi di Carpineto, azienda che ha sede in Toscana. Ma che unisce nel suo abbraccio tutta l’Italia. E non solo.
“Giovanni Carlo Sacchet era bellunese, originario di Castello Lavazzo. Aveva studiato alla scuola enologica di Conegliano, ma il suo sogno era di fare un grandissimo vino rosso. Mio padre, invece, Antonio Mario Zaccheo viene da Turi, in provincia di Bari. Nato in una famiglia già legata al vino e all’agricoltura. Ma producendo rosso intuisce le potenzialità del bianco. Così acquista dodici ettari a Lariano, nei Castelli Romani, coltivando soprattutto bellone e trebbiano. Col tempo si accorge però quanto in zona fosse gettonato il Chianti Classico. Certo ben diverso dal Primitivo del sud. Ma perché non provare a farlo? Fu così, fu inseguendo un rosso ideale, che Giovanni e mio padre s’incontrarono a Greve in Chianti. E nel 1967 fondarono la Carpineto, in località Dudda. Una dozzina di ettari. Pensare che le prime vigne vennero messe a tendone. Come si usava fare in Puglia”, racconta Michael, tracciando la straordinaria story di due grandi uomini. Accomunati dalla passione. E dal desiderio di dar voce alle tante espressioni del sangiovese. Puntando sin da subito all’eccellenza. “In bottiglia. Perché a loro di far vino in fiasco non interessava per nulla. Interessavano invece sperimentazione e continua evoluzione”, precisa Mikke.
Così lo chiamano confidenzialmente. Mikke: un presente tutto poliziano, ma natali affondati in un paesino alla fine di un fiordo. In Danimarca. Per via delle origini della madre. E poi la passione per la musica, i viaggi, l’aria aperta, lo sci, le auto, il nuoto, la moto. Una Yamaha XT 600, che porta tatuato sul serbatoio lo stemma di famiglia. “Noi non siamo nobili, ma abbiamo disegnato il nostro stemma. Che porta impressa l’uva bianca, l’uva rossa, l’ulivo e la Badia di Montescalari. Perché papà e Giovanni acquistarono l’azienda proprio da questa vicina abbazia”, continua Mikke. Al cui fianco vi sono madame Bianca - cresciuta in Germania, a Norimberga, ma dalle radici italo-spagnole - e il figlio ventenne Anton Robert: nato a San Francisco, tornato in Italia all’età di quattro anni e già alle prese con vigne e filari. “Sono stato il primo a chiamare mio figlio Anton e non Antonio”, svela Michael. Che con la family vive in sinergia con la tenuta di Montepulciano. Una delle cinque tenute di proprietà. O meglio, degli appodiati. Che, al tempo degli Stati Pontifici, rappresentavano frazioni del territorio comunale rette da un priore locale o da un sindaco, che godeva di alcune piccole autonomie.
Certo. Il duo Sacchet-Zaccheo non si ferma a Dudda. Anzi. Guarda lontano, alla ricerca dei terreni più vocati al sangiovese. Senza trascurare altri vitigni. Ecco allora l’Appodiato di Gaville, in Alto Valdarno, non lontano dalla sede principale di Dudda: 65 ettari di terreno, di cui 13 a vigneto e 17 a uliveto. L’Appodiato di Gavorrano, in Maremma: 165 ettari di terra, di cui 10 a vigneto e 5 a uliveto. L’Appodiato di Montepulciano: 184 ettari, di cui circa 120 a filari e 12 a ulivi. E l’Appodiato di Montalcino (l’ultimo acquisto, nel 2015): 50 ettari di terreno, di cui una decina vitati, con corredo di ulivi.
Un mondo allargato e variegato. Una sorta di puzzle, dove tutto s'incastra perfettamente. Un po’ come multiforme è il mercato di Carpineto, che esporta in una settantina di Paesi, fra cui Canada, Stati Uniti, Svizzera, Germania, Australia, Norvegia e Regno Unito. Ed è proprio Mikke l’export manager. Mentre Caterina Sacchet, figlia di Giovanni, è l’enologa della maison: nata a Firenze. Col sangiovese nel sangue. Il suo motto? Vitis fructus et laboris nostri. Il vino di cui fa fiera? Il Dogajolo Toscano Rosso. Un baby super tuscan, super contemporaneo. Ottenuto da uve sangiovese e cabernet sauvignon. Fratello del Dogajolo Toscano Bianco (chardonnay, sauvignon blanc e grechetto) e del Dogajolo Toscano Rosato. “Sangiovese, canaiolo e traminer”, precisa Michael. Affiancato in azienda anche dalla sorella Francesca e da Elisabetta Sacchet. Una storia di amicizia, di rispetto, di tenacia e di audacia.
Nobile, pici, chianina e Cinquecento
“Qui siamo a 300-350 metri di altezza. E cinque milioni di anni fa vi era il mare”, rivela Mikke, mostrando le conchiglie affondate nelle argille delle terre poliziane. E mostrando pure un piatto di frutti di mare “un po’ duri da mangiare”, in bella vista all’ingresso della cantina iper moderna di Montepulciano. “L’ha disegnata Giovanni Carlo Sacchet. Ed è stata completata nel 2014”, ama puntualizzare lui. Tracciando il profilo di una cave lineare, minimale, essenziale e spettacolare. Luminosa e spaziosa. Accarezzata dalla luce. Fra tasting zone con vista sulla bottaia, piccolo museo del vino e aree salottiere pensate per rilassarsi sorseggiando. Mentre all’esterno si estendono le vigne, gli ulivi secolari e un laghetto alimentato da una sorgente naturale. Il tutto con una vertiginosa cisterna in acciaio a far da sentinella. E da balcone per un brindisi panoramico.
“Questo è un ecosistema meraviglioso. In cui tutto convive in armonia. E poi ci sono le argille. Che regalano vini poderosi. Ma che dettano anche legge. Esortandoci a fare solo cose serie. Del resto, ora come ora, è nella precisione che sta il vantaggio. È nel fare meno che si ottiene di più. È partendo da un’uva pulita che si fa il vino buono. E sono dozzine e dozzine di piccoli miglioramenti che lo rendono eccezionale”, tiene a dire mister Zaccheo. Che nella tenuta poliziana può contare sulla massima tecnologia, ma pure sulla saggezza e sulla competenza dell’agronomo Mauro Micheli.
“Sin dall’inizio abbiamo deciso di produrre il Vino Nobile di Montepulciano nella sola versione Riserva. Tra l’altro uscendo un po’ più tardi rispetto ai dettami del disciplinare. Con l’annata 2016 stiamo debuttando ora. Ma noi preferiamo così”, spiega Mikke. Presentando un vino dal tono rubino e dalla trama balsamica e mediterranea. Figlio del prugnolo gentile (il sangiovese qui si chiama così) e di piccole percentuali di canaiolo, colorino e mammolo. Longevo, superbo, premiatissimo. Entrato - con le annate 2010, 2011 e 2013 - fra i top 100 al mondo secondo la rivista Wine Spectator. Strepitoso, persino nel millesimo 1995. Poi? Arriva lui. Con aristocratico incedere. Il Vigneto Poggio Sant’Enrico, un cru: suadente, intenso, complesso. Ottenuto esclusivamente da uve prugnolo gentile. “Lo produciamo solo nelle annate a cinque stelle. Ora usciremo con il 2012 e successivamente col 2015”, annuncia Michael. Un Nobile capolavoro, non a caso facente parte della preziosa collection degli Appodiati. Che include pure il Molin Vecchio e il cru Vigneto St. Ercolano.
“Nel periodo di lockdown abbiamo persino piantato seimila barbatelle di malbec”, raccontano Mikke e il figlio Anton Robert. Mentre si dirigono verso il vigneto contiguo ad alta densità più esteso d’Italia: ben 65 ettari, scanditi in nove appezzamenti. Il suo nome? Camponibbio, come ben spicca in etichetta del Farnito Camponibbio: sangiovese, merlot e cabernet sauignon a rincorrersi in sorsi fatti di forza ed equilibrio. Mentre il Farnito Cabernet Sauvignon dà voce a spezie ed eleganza. Un vino che, nella sua annata 1995, il Wine Spectator mise al 39esimo posto nella classifica dei migliori 50 vini rossi del mondo. Ottimo con la bistecca alla fiorentina. Di chianina. Come quella cucinata sulla brace (di quercia e cerro) da Massimiliano Laera, nel suo ristorante Rabarbaro, a Chianciano Terme. Tra l’altro, il termine Farnito viene proprio da farnia, un tipo di quercia.
E con la fettunta? Sta benissimo il Farnito Brut, esclusiva cuvée di Chardonnay di differenti annate. Aromatico, ricco, strutturato. Custodito in una bottiglia affusolata e slanciata. Ottimo per affrontare un extravergine come il Sillano: summa di olive frantoio, leccino, pendolino e moraiolo, provenienti dalla tenuta di Gaville. Invece, con la pappa al pomodoro ben si presta uno spumante vibrante e lucente quale il Brut Rosé. “È quasi tutto a base di sangiovese. Di un vigneto esposto a nord, qua a Montepulciano. Poi mettiamo sempre un pochino di traminer e di canaiolo”, dice Mikke.
Pappa al pomodoro. Servita anche al ristorante La Grotta di Montepulciano. Fra sale, camini e un bel giardino-terrazzo che molto somiglia a un riservato salotto. Al desco? Sformato di melanzane e zucchine con pancetta di cinta senese croccante; pici al ragù bianco di faraona e prugne secche; carré di agnello in crosta di pane ed erbe aromatiche, fagiolini e cavolo viola; quaglia disossata e caramellata al miele con indivia; fiorentina (della localissima macelleria Marelli) con fagioli cannellini all’olio; clafoutis di prugne e cantucci. Valorizzati in pairing con il Farnito Vinsanto del Chianti 1999 di Carpineto. Trebbiano toscano e malvasia, per un nettare solare e fragrante.
Fuori (dalla Grotta) il Tempio di San Biagio, progettato da Antonio da Sangallo il Vecchio. Un capolavoro del Cinquecento, dalla pelle in travertino su un prato pianeggiante. Laddove la Val d’Orcia incontra la Val di Chiana. Il consiglio? Non perdersi una passeggiata nel cuore di Montepulciano. Con la sua Piazza Grande e il Pozzo dei Grifi e dei Leoni. Disegnato sempre dal Sangallo.
Cugusi: l’arte del pecorino
Chianina, pici e pecore. Sì, pecore. “Ne abbiamo circa ottocento, che pascolano su 220 ettari di terreno. A fieno, a grano, a vigne e a ulivi. Contiamo tremila piante di ulivi”. A parlare è Silvana Cugusi. Un cognome must per il pecorino di Pienza. Ma anche un emblema di riscatto, di resilienza di rinascita. “Mio padre era di Fonni. In Barbagia. Il paese più alto della Sardegna. Le pecore le allevava già, ma lui sognava la mezzadria. E il territorio di Montepulciano si prestava bene. Qui il pecorino era un prodotto rinomato, seppur stesse scomparendo. Così, papà Raffaele partì. Con mamma Maria, nove figli e trecento pecore. Io ero piccolissima. Salpammo in nave da Olbia, sbarcammo a Civitavecchia, salimmo sul treno, arrivammo a Chiusi e camminammo. Sin qua, a Montepulciano”, narra Silvana, ripercorrendo anni pieni di passione, determinazione, coraggio e sacrificio. “Solo dopo mesi anche mia madre fu contenta della scelta. Ma gli inizi non furono facili”.
Visionario Raffaele. Che nel 1962 fonda un’azienda oggi ritenuta un modello da emulare. Per artigianalità, sostenibilità, sensibilità. Cugusi. Sinonimo di eccellenza, ma pure di famiglia. “Qui lavoriamo tutti. Anche mio marito Fabrizio e il marito di mia sorella Giovanna, Paolo”. Paolo Mencattelli, il casaro. Sebbene qui il segreto sia il gioco di squadra. Per creare prodotti unici, fortemente identitari. Da acquistare nella bottega (oppure sullo shop online). Da degustare in loco. Persino nella formula picnic Cugustando (attiva da aprile sino alla fine di ottobre).
Ecco allora la ricotta tiepida e il primo sale, il Fresco e Il Candido, i semi stagionati (come quello trattato con conserva di pomodoro) e gli stagionati, posizionati in orci di terracotta: sotto il fieno, sotto la crusca, sotto la cenere, sotto le foglie di noce e sotto rametti di finocchietto selvatico. Fra loro? Il principe: il Gran Riserva, iper premiato, iper ricercato. Lasciato riposare - su assi in abete - per almeno 18 mesi. Girando ogni forma due volte alla settimana e massaggiandola con olio extravergine di oliva.
Ma ricca è la compilation Cugusi: pecorino di Pienza al pepe rosa e al pepe nero, al peperoncino, ai tartufi nero e bianchetto, e alle spezie (prezzemolo, aglio, peperoncino, erba cipollina, cerfoglio, origano, pomodoro disidratato e basilico). Lavorazioni lente e accurate. Che vedono il pecorino di Pienza persino fermentare nelle vinacce di Vino Nobile di Montepulciano. Naturalmente di Carpineto.
E quest’anno il caseificio ha pure un bed & breakfast. Per un’ospitalità a tutto tondo. Cinque camere e un appartamento arredati con classe. Fra toni naturali, travi a vista, soffitti a volta e qualche prezioso manufatto sardo. “È la casa della nostra infanzia”, rivela Silvana con una punta di nostalgia. Ma anche con tanto orgoglio. Ammirando dalla grande terrazza l’ubertosa campagna.
Più in là: Montalcino, il Chianti, la Maremma
È stato l’ultimo acquisto delle famiglie Sacchet-Zaccheo. Un lustro fa. Ed è un vero gioiello l’Appodiato di Montalcino: 500 metri di quota e 50 ettari di terra, di cui 10 a vigneto, con corredo di fitto bosco e uliveto. “In confronto a Montepulciano questa è la nostra Fiat 500 Arbath. Ma ne andiamo fieri”, confessa Mikke. Mentre indica i vigneti Paradiso e Forteto, che significa macchia mediterranea. Un’oasi bucolica, gestita con cura da Tiziana Galli. Quasi un wine retiro, ritmato da antichi casolari in pietra, una piccola bottaia, querce e tanti, tanti fiori. Perché Tiziana ama i fiori. E ama anche il Brunello di Montalcino, austero, altero e al contempo vivido canto del sangiovese grosso. Ben apprezzato nei suoi millesimi 2010, 2012 e 2015. “Ottimo dal 2023 al 2042”, suggerisce il Wine Spectator. I cultori attenderanno. “Tra un filare e l’altro le pendenze sono talmente differenti che anche i periodi di maturazione delle uve sono diversi”, fa saggiamente notare mister Zaccheo senior, parlando della tenuta ilcinese.
Lui, Antonio Mario, però vive a Gavorrano. Nell’appodiato grossetano dalla natura esuberante e selvaggia. Dove cresce il vermentino. Ma anche il merlot. Che regala il Farnito Valcolomba, frutto dell’omonimo vigneto. “È un vino che sento particolarmente mio, l’ho cercato e studiato, e dopo qualche prova sono riuscita ad ottenere ciò che avevo in mente d’esprimere”, dice l’enologa Caterina. Contenta pure del Vermentino Valcolomba. Un vino fresco, minerale, dalla buona acidità e dagli accenni erbacei. Figlio del vento e del mare. A cui ben si accorda.
Ed è in equilibrio fra mare e pinete che lo scorso anno ha aperto il primo locale di famiglia: il Dogajolo Banco del Vino. “L’idea è scaturita dal desiderio di essere sempre più vicini al consumatore finale, andandogli incontro in un ambiente incline allo star bene, al condividere un calice o una bottiglia, in una situazione di convivialità molto informale e di vacanza, come può essere la Marina di Scarlino, porto turistico in Maremma tra i più frequentati nella buona stagione. A pochi chilometri dalla nostra tenuta di Gavorrano. Quella da me più amata, coi vigneti circondati da boschi e macchia e mediterranea. Così come andar per mare mi è sempre piaciuto e ora unirvi i nostri vini è una gioia”, spiega Antonio Mario. Descrivendo un locale smart e slow, dove assaggiare le numerose etichette di Carpineto, incluso il trio Dogajolo. Dalle pittoriche etichette flora oriented, realizzate dall’artista friulana Manuela Fischetto.
Non da ultimi, gli appodiati di Gaville e Dudda. La casa madre, il quartier generale, la fonte. Il luogo da cui tutto ha avuto inizio. E dove tutto prosegue. Nel nome del Chianti Classico. Anche nei suoi upgrade Riserva e Gran Selezione. Il sangiovese. Ancora una volta. In altre e sorprendenti interpretazioni.