Lontani. Dalle denominazioni comuni. Dalle convenzioni. E da certe stereotipate convinzioni. Fuori dal coro. Fuori dalla massa. Fuori dal seminato. Vini diversi. Particolari. Bianchi freschi e radiosi, ideali per la bella stagione. Rossi eleganti e intriganti, nonché rosati capaci di trasformarsi persino in un cocktail. Un piccolo viaggio fra Marche e Toscana, fra Mar Adriatico e Mar Tirreno, per scoprire il cuore pulsante dell’Italia. Capace di concentrare la bellezza in una bottiglia.
Bianchelli e Pop Art
Vitali, energiche e vigorose. Innervate da uno spirito positivo e costruttivo. Così sono le etichette targate Fiorini, secolare azienda marchigiana posizionata in località Barchi, nel comune di Terre Roveresche, in provincia di Pesaro-Urbino. Una realtà fondata nel primo Novecento dal dotto Luigi (già laureato in Agronomia sul finir dell’Ottocento), portata avanti dal figlio Valentino e oggi condotta da Carla. Conosciuta anche come Lady Bianchello. Il motivo? Presto detto: dei 45 ettari di proprietà (tutti a certificazione biologica), ben 30 sono coltivati esclusivamente a bianchello, vitigno autoctono dell’area settentrionale delle Marche. Diffuso specialmente sulle colline che fiancheggiano il fiume Metauro.
Bianchello che per Carla rappresenta non solo una vocazione, ma pure una missione. Risultato? Una vera compilation di Bianchelli (in toto 140mila bottiglie all’anno), che vanno dal cru “Tenuta Campioli”, un Bianchello del Metauro doc Superiore che ha fatto la storia, al “Sant’Ilario”, più beverino, scattante e brillante, sino al “Monsavium” (da Mondavio, città natale dei Fiorini), un Bianchello passito dalla spiccata identità. “Il Monsavium è stata davvero una piacevole sorpresa per noi: effettivamente è un vino unico, e chi lo assaggia se ne innamora. Per anni l’abbiamo messo in secondo piano rispetto alle etichette più conosciute e significative per l’azienda. Oggi non possiamo prescindere da lui, soprattutto quando ci troviamo in mercati extra regionali. E ce lo richiedono da tutta Italia”, spiega fiera Carla.
Orgogliosa di un altro Bianchello, appartenente alla trilogia dei "Pop Wine". Vini fuoriclasse, diversi, inimitabili. “Ci piace definirli dinamici, per la loro capacità di cambiare. Si tratta di vini che hanno come minimo un paio di anni, quindi hanno già una loro portata narrativa. Ma sono anche ‘particolari’ nel sapersi raccontare in modo diverso, addirittura man mano che si assaggiano”. Vini che sorprendono, anche intellettualmente. Vini capaci, come la Pop Art di sradicare concetti e preconcetti, percorrendo strade unconventional.
“Produrre vino, dopotutto, è una forma d’arte, perché ha nella natura la sua musa ispiratrice”, sottolinea Paolo Tornati, marito di Lady Bianchello, amante dell’arte contemporanea e co-autore della trilogia pop. Che ha in “Andy - particolare di vendemmia” il suo primogenito (con palese richiamo a Warhol). Pluripremiato e poliedrico figlio di un’accurata selezione di uve bianchello, provenienti dai vigneti più vecchi, con almeno quarant’anni di vita. Un nettare scalpitante e persistente, che dà sempre una chiave di lettura differente. Sia al cambio di annata (muta sempre anche il colore dell’etichetta) che a ogni singola degustazione.
Poi viene “Radiant - insieme particolare”: inedita combo di bianchello e verdicchio. Un nettare muscolare e suadente, lucente e minerale, che rifugge dalle classificazioni, per incarnare la libertà, rammentando nel nome la serie di icone Radiant Baby griffate dal pittore e writer statunitense Keith Haring.
Infine, “Roy - rosso particolare”. Come Roy Lichtenstein, altro esponente newyorkese della Pop Art. Segni particolari? Il suo nascere da uve canaiolo nero, solitamente gregarie del sangiovese (per arrotondarne le eventuali asperità) e qui elette ad assolute protagoniste. Raccolte rigorosamente a mano e vinificate con raspi al seguito (spesso considerati materia di scarto). Un vino dal tono rubino poco intenso, ma profondamente elegante. Fra note vegetali, cenni balsamici e nuance speziate. Una crasi di memoria e modernità. Una Cenerentola divenuta principessa.
Nati sotto il segno dei pesci
Cambio di scenario. È nell’esuberante campagna maremmana che se ne sta la tenuta Monteverro: 50 ettari (di cui 38 vitati) ai piedi del borgo medievale di Capalbio, in provincia di Grosseto. Una cantina guidata da un team internazionale, capeggiato da Julia e Georg Weber. Mentre l’enologo è Matthieu Taunay, originario della Loira ma con un bagaglio di esperienze accumulate intorno al mondo: dalla Napa Valley al Sudafrica, passando per Châteauneuf-du-Pape e la Nuova Zelanda.
Una squadra vincente e visionaria. Illuminata. Anche dall’arte. Certo: le annate 2019 e 2018 del Vermentino (bianco dallo spirito mediterraneo, scattante e brillante) e del Verruzzo (rosso dal temperamento energico e risoluto come il nome che porta, con chiaro riferimento al piccolo cinghiale) indossano una veste tutta nuova, firmata da Bruno Pellegrino: uomo politico, autore di libri, ma anche imprenditore e fine artista. Sì, un uomo poliedrico e acuto, sempre pronto a percorrere insondate strade. “Mi è capitato più volte di cambiare vita, di voltare pagina, di iniziare nuove avventure. I colori, le forme, la pittura e, in piccola parte, la scultura mi hanno catturato in maniera vigorosa, assorbente. E, quello che più conta, gratificante. Una vera torsione esistenziale”.
Un “ricamatore di suggestioni”, che ha studiato due etichette pronte a ritrarre un pesce (uno più dorato e uno più virante sul rosso) delicato ma dinamico. Il perché? È spiegato nella retro etichetta. “I pesci come il vino vivono nel segno dei colori e della naturale vitalità”. E come il vino non parlano. Ma dicono tanto.
Dogajolo young
È giovanissimo, è nato a San Francisco, ma è cresciuto fra le toscanissime campagne poliziane, fra oliveti, vigneti e cipressi. Il suo nome? Anton Robert Zaccheo, novella (e terza generazione) della saga Carpineto, fondata nel 1967 dalle famiglie Sacchet e Zaccheo e ad oggi “diffusa” su ben cinquecento ettari, coltivati in modo sostenibile e suddivisi in cinque zone a forte vocazione vitivinicola: l’appodiato di Dudda, in Chianti Classico (la sede madre della maison); l’appodiato di Montepulciano (col suo Vino Nobile); l’appodiato di Montalcino (col suo Brunello); l’appodiato di Gaville, in Alto Valdarno; e l’appodiato di Gavorrano, in Maremma. Al tempo degli Stati Pontifici, infatti, l’appodiato rappresentava una frazione del territorio comunale (facente capo a un villaggio) retta da un priore locale o da un sindaco, che godeva di alcune piccole autonomie.
Insomma, un’azienda che non dimentica il passato. Ma che non trascura neppure i social. Soprattutto ora, grazie al trascinante (e poco più che ventenne) Anton Robert, appassionato di musica e video, e pronto a postare e a immortalare novità, momenti di lavoro, andamento della vite. “Mi sveglio presto e vado nel vigneto. Faccio il lavoro nei campi, che a seconda della stagione è diverso. In questi mesi ho piantato una nuova vigna di sangiovese, è stato un lavoro duro, sempre chino e piegato con la schiena, ma è stata un’esperienza che mi ha fatto capire tante cose. Altri giorni vado in cantina, per ripulire vecchie botti. E quando finisco faccio un’ora di corsa fra i vigneti, oltre il lago, spesso nel bosco”, racconta lui. Che, da bravo millennial, valorizza il momento dell’aperitivo. Scandito da un buon bianco o da un calice di bollicine. “Siamo stati i primi a farle in Chianti Classico all’inizio degli anni Ottanta”, precisa il cantiniere. Che ama anche i cocktail.
“Quando ho più tempo preparo il Frozé Dogajolo. Anche più velocemente in versione no frozen, quindi Frosé on the rocks. Ho provato a farlo perché un bartender di New York ne faceva uno buonissimo con il nostro Dogajolo Rosato. E allora ho messo a punto una mia ricetta facilmente replicabile a casa. Soprattutto ora che è tempo di fragole”. Un modo smart per valorizzare un vino young, facente parte della linea più contemporanea della griffe Carpineto. Un nettare floreale, raggiante e gioioso. Sin dall’etichetta. Al naso? Profumi di rosa, mirto e fiori di vite. Ma anche mela, ribes e marasca. Un vino brillante e vibrante, di facile beva, ma al contempo determinato e dalla spiccata acidità. “Io e i miei amici lo abbiniamo con i pecorini della Val d’Orcia e coi salumi. Ma quando sono in Maremma, al mare, ci abbino un crudo di pesce, le alici, oppure una tartare appena speziata con pepe nero”, consiglia Anton Robert.
Preparare il drink è semplice. Basta seguire semplici step. Versare mezza bottiglia di Dogajolo Toscano Rosato (in vendita anche online) in un recipiente, e mettere in congelatore per sei ore. Intanto, in una casseruola, far bollire un etto di fragole - lavate e tagliate a pezzetti - con 50 ml di acqua e 50 g di zucchero. Una volta trasformate in purea, togliere dal fuoco e lasciare riposare per 30 minuti. Filtrare e mettere lo sciroppo così ottenuto a raffreddare in frigorifero per un’altra mezz’ora. Spremere uno o due limoni e filtrare. Togliere il Dogajolo dal freezer e versarlo in un frullatore, insieme allo sciroppo di fragole e al succo di limone. Aggiungendo qualche cubetto di ghiaccio. Frullare il tutto, sino a ottenere una sorta di granita. Da versare in calici dai bordi impreziositi dallo zucchero. Come garnish? Foglioline di menta fresca e scorze di limone. Il video è tutto da guardare su @carpinetowines IGTV.
Regalmente Ruspo
Quella del Carmignano è un’antichissima denominazione. Non solo, è la più piccola denominazione di origine controllata italiana. Geolocalizzata in provincia di Prato. Ed è qui che spicca la Tenuta di Artimino: settanta ettari, dove la coltivazione della vite era già conosciuta in epoca etrusca. Un wine resort - di proprietà della famiglia Olmo - con tanto di hotel (la Paggeria Medicea), appartamenti e case coloniche (Le Fagianaie), nonché il ristorante Biagio Pignatta, che mutua il nome dal maggiordomo di Ferdinando I de’ Medici. Il Granduca che commissionò la costruzione della Villa La Ferdinanda (Patrimonio dell’Umanità Unesco), conosciuta anche come la Villa dei Cento Camini ed edificata, su disegno dell’architetto Bernardo Buontalenti, a partire dal 1506. Anno domini ben impresso su una specifica gamma di vini di Artimino. Fra i quali si fa notare il “Vin Ruspo”, nel suo ultimo millesimo 2019. Un Barco Reale di Carmignano Rosato doc, visto che le uve provengono dal parco stesso della residenza, un tempo cinta da un muro lungo una cinquantina di chilometri e destinata a riserva di caccia dei Medici.
Un rosato piacevole, fresco e minerale (acquistabile sull’e-shop). Figlio di sangiovese, merlot e cabernet sauvignon. Che si racconta sia stato portato in questo territorio proprio dalla visionaria Caterina de’ Medici. Un vino dalle nuance floreali di rosa e biancospino, e dagli accenni di ciliegia e melagrana. Un vino elegante e piacevole. Sì, perché ruspo non significa ruvido. In carmignanese vuol dir “rubato”. Si dice infatti che i contadini usassero tener per loro il primo succo che filtrava attraverso le cassette, dopo la raccolta. Per farne il primo nettare della vendemmia. Ideale con i salumi, le carni bianche, gli antipasti di pesce e primi piatti delicati. Come un risotto alle verdure primaverili e fiori di zucca. Oppure un sandwich con pane rustico, avocado, uovo, foglie di spinaci, peperoncino. Per un vibrante picnic.