Troyes. Chiesa di Santa Maddalena. Una vetrata fa da testimone silenziosa. Ritraendo il medievale Comte de Champagne nell’atto di porgere a un cardinale il primo ceppo di chardonnay. Pescato a Cipro, lungo la via del ritorno dalla Terra Santa e dalle Crociate. Un gesto. Quasi biblico. Che autentica una grande verità: quella che il primissimo chardonnay di tutta la Champagne è stato trapiantato proprio qui: nel cuore dell’Aube. Dipartimento che se ne sta a sud della Marne, la regione di Reims e di Épernay. Quella ritenuta iconica per la produzione delle classiche bollicine francesi. Che invece affondano le loro radici nella Côte des Bar.
È andata così. È andata che quelli della Marne intuirono le immense potenzialità dello chardonnay. E lo acquistarono dell’Aube. Che conferì per secoli, senza poter produrre Champagne. Sino alla svolta. Sino all’autonomia commerciale, giunta all’inizio del Novecento. Una lunga storia. Ben lo sa e sempre ha saputo Stéphane Revol, ceo della maison Comte de Montaigne (con sede a Celles-sur-Ource), impegnato a difendere e valorizzare quella che è “l’altra Champagne”. Un terroir unico, che ruota intorno alla Côte des Bar: dal clima temperato oceanico, dal sottosuolo gessoso (pronto a svolgere funzioni termolegolatrici e protettive nei confronti delle radici del vigneto) e dal suolo minerale, nutrito d’argilla. La stessa che contribuì alla costruzione delle cosiddette maison à colombage - insieme a travi in legno e paglia - sempre a Troyes. Cittadina che, guarda caso, ha un centro storico che evoca la forma di un tappo di Champagne. Tutto torna, insomma. E a far sentinella ai vigneti non manca neppure la rosa di Damasco. Esattamente quella importata dall’ormai celebre conte visionario, tornato dalle Crociate con un bottino rivoluzionario.
“Noi abbiamo scelto di fare solo prodotti premium. Fortemente identitari. Figli del tempo. Perché un vino ha bisogno di molto tempo per raggiungere l’apogeo. Le nostre cuvée riposano sui lieviti per almeno 48-55 mesi”, spiega monsieur Revol nel bel mezzo di un brindisi al Four Seasons di Milano. A conferma della grande complessità degli Champagne dell’azienda dell’Aube. Che ha i suoi diktat, i suoi principi e pure i suoi valori imprescindibili: “Per me lo Champagne è condivisione, golosità, complessità ed eleganza”, continua Stéphane. Che sta portando avanti anche la sua crociata green, nel segno di un vino simbolo della joie de vivre ma pure di genuinità e autenticità. “Il nostro obiettivo è di produrre vini in piena armonia con l’habitat naturale che ci circonda, per dare vita a cuvée di qualità assoluta, che racchiudano le caratteristiche più autentiche del territorio dell’Aube”.
Quindi? Via libera a best practice ecosostenibili: un massimo di tre trattamenti annuali dei vigneti, sempre in caso di malattia e mai in via preventiva; lotta al gelo con l’acqua, evitando di usare gas per il riscaldamento delle vigne; nonché un ciclo di lavorazione a ridotte emissioni di anidride carbonica. “L’impegno per la tutela del nostro terroir nasce dalla volontà di consegnare alle generazioni future suoli non contaminati e in grado di produrre senza alcun supporto chimico uve di eccellenza”, precisa Revol.
Nasce così un pokerissimo di cuvée. Ottenute da attenti assemblage e accurati dosage. Cinque Champagne di carattere. E di cuore. Fieri di esibire in etichetta la definizione di Grande Réserve. A puntualizzare il loro essere figli della passione, dell’attesa e della pazienza. Voilà il Brut, summa di pinot noir (per il 70%) e di chardonnay (per il restante 30%). Un must della maison, dal perlage fine e persistente, dall’innata freschezza e dalle nuance di frutta bianca. Ideale per l’aperitivo. Come consiglia lo chef Andrea Larossa, patron del ristorante che ad Alba porta il suo cognome. Andrea che trova nel Brut l’etichetta perfetta per scampi, salmone e tartare di pesce. E perché no, per il parmigiano e le lumache.
Ed ecco anche l’Extra Brut: puro, snello, scattante. A basso dosaggio. Note di pompelmo e limone, che fanno da apripista ad accenni fruttati. Ottimo con i frutti di mare, le ostriche e i crostacei. Ma anche con i formaggi affinati.
Con il sushi, i carpacci di carne o di tonno, oppure con i dolci a base di frutta rossa si sposa invece bene il Rosé di famiglia. Un rosé de saignée, ottenuto da sole uve pinot noir, senza aggiunta di vecchio vino. Gli aromi di frutta rossa annunciano un palato corposo, complesso e strutturato. Indubbiamente uno Champagne energico e vigoroso.
E poi c’è lui. La quintessenza dello chardonnay: il Blanc de Blancs. Morbido, delicato, minerale, burroso. Fra sfumature d’agrume, frutta esotica e fiori bianchi. Un’etichetta color oro chiaro, preziosa. Da sposare con le tartare di mare o di terra. Ma pure con il pesce, l’aragosta e sua maestà l’anatra.
Last but not the least la Cuvée Spéciale. Affascinante espressione del pinot nero. Un’etichetta aristocratica, sontuosa, sublime, che vanta un lustro di invecchiamento. Di cui un anno in botte. Uno Champagne profondo, intenso, di razza. Da accompagnare con il foie gras, la selvaggina e i formaggi. Noblesse oblige.
Champagne fuoriclasse. Che invitano al rispetto di alcune regole. In primis, di conservazione e di servizio. Come giustamente ricorda Stéphane. Primo comandamento: tenere la bottiglia in cantina - rigorosamente al buio - o nella cantinetta refrigerata (almeno da 48 ore), preferibilmente sdraiata. Per poi servirla a una temperatura compresa fra i 9 e gli 11°C. Champagne da versare in un calice a tulipano, per esaltarne gli aromi. Bicchiere avvinato e non ghiacciato, mi raccomando. Per non compromettere i profumi del vino.
Gesti da evitare? Riempire il calice in un sol colpo. È invece consigliabile colmarlo a metà, versando lentamente una piccola quantità di Champagne per volta. Tenendo il bicchiere leggermente inclinato e prendendo la bottiglia per il fondo (non per il collo). Inoltre, evitare di servire lo Champagne eccessivamente freddo; evitare di stappare la bottiglia col botto; ed evitare la formula on the rocks. Il contatto col ghiaccio altererebbe la naturale fragranza delle bollicine.
Champagne dal personalissimo savoir faire quelli targati Comte de Montaigne. Ovvio. “Ogni artista avrà poi il suo stile che andrà a dipingere in diversi quadri, usando vari pantoni”, chiosa Stéphane. Trovando una similitudine fra lo chef de cave e il mondo dell’arte, e svelando la sua predilezione per certi tipi di tagli: “Io apprezzo molto quelli di Lucio Fontana”.