“Ogni scena che ho dipinto è una scena che ho vissuto. Io ho sempre lavorato in campagna, e in tutte le stagioni c’erano lavori da fare, che io ho cercato di rappresentare nei miei quadri. Si lavorava anche in inverno: anche in inverno, per esempio, andavo con mio padre in campagna a prendere il fieno… è tutto nei miei ricordi. Andavamo a raccogliere le olive, partecipavamo alla mietitura… Io sono stata a mietere il grano, con quel gran caldo!… Per dipingere la mietitura ho usato i colori che davano sull’arancione, per dare la sensazione del grande calore che bruciava i campi”.
Sono le parole di Annunziata Scipione. Parole che, scritte bianco su nero, si leggono all’incipit della splendida monografia a lei dedicata: Il Fuoco della Terra. Pronta a raccogliere le opere dell’artista che vanno dal 1968 al 2016. Ma pronta pure a tenere a battesimo una mostra che ha già fatto tappa all’Aurum di Pescara e che, fino al 30 luglio, illumina la Fondazione Stelline di Milano. Per poi approdare a Teramo, a Palazzo Melatino, dal 19 dicembre al 19 gennaio 2020.
Annunziata: classe 1928, teramana doc. Di Azzinano di Tossicìa. Ultima di sette figli. Contadina, profondamente contadina. E legata a quel borgo d’Abruzzo - “un po’ in discesa, o in salita”, come dice lei - posizionato ai piedi del Gran Sasso. “Eravamo contadini, mia madre non aveva neppure il tempo di starmi dietro, e così mi mandava a fare qualche lavoretto, o a badare alle pecore (spettava a me perché ero la più piccola)”. E mentre bada alle pecore, Annunziata prende un po’ di terra, la mescola con l’acqua e plasma figurine. E coi pezzetti di carbone traccia segni e disegni sui muri e sulle porte delle stalle. Arriva solo alla terza elementare. Stop. Poi a guidarla sono solo istinto, passione, memoria e immaginazione. Nel 1968 crea la sua opera prima: Signorina, profilo di donna, realizzato in bassorilievo. Utilizza i legni trovati nei boschi o scovati presso qualche falegname locale. Ma nel 1972 inizia a dipingere. In primis con i pastelli del figlio Piero. Per poi affinare via via la propria arte, conquistando l’olio su tela. “Disegnavo di nascosto da mio marito, mentre lui era al lavoro: non volevo fargli vedere nulla, perché si diceva che le donne dovevano cucinare, fare la calza, ma a me piaceva giocare con i colori. Qualcuno mi disse che la mia pittura era naïf, ma io non me ne intendevo”.
Naïf, certo. Ma solo se inteso come “nativo”, “indigeno”, “autentico”, “sincero”. La Scipione cattura il battito arcaico della terra e dell’uomo per restituirlo alla tela. Fissa per sempre, col suo occhio colto e illetterato, il braccio e il gesto agresti, l’albero e il granturco, la pecora e il maiale, il gallo e l’asino, i boscaioli e i taglialegna. Ma sempre aggiungendo luce, energia, colore e vigore. “La Scipione e Ligabue, anche se apparentemente vicini, sono diametralmente agli opposti. L’arte di lei è intrisa di una solarità apollinea, mentre quella di lui è pervasa da angoscia e tormento”, spiega Silvia Pegoraro, curatrice della mostra ora in scena a Milano, organizzata dall’associazione culturale Big Match di Teramo, con il sostegno della Fondazione Tercas (e naturalmente di enti e istituzioni).
Sì, l’ars della Scipione è raggiante e vibrante, esuberante e gioiosa, fiabesca e serena. Nutrita di toni squillanti: di gialli, rossi, viola, verdi, turchesi e arancioni. Capaci di esprimere con forza tutta la ruralità e l’ancestralità abruzzesi. Inanellando momenti di vita, di lavoro e di festa. Come nel quadro Ballo sull’aia, datato 1972. Mentre nella Cucina paterna (1980) ritrae l’intimità di un focolare di famiglia e di mestieri ormai perduti; mentre ne La mietitura (2007), ne La trebbiatura (1976), nella Sfogliatura del granturco (2000), nonché nella serie delle Raccolte (delle olive, dell’uva, delle ghiande, del lino, delle mele, dei cocomeri, dei pomodori, dei carciofi, delle noci, delle foglie di fico) racconta l’agricola identità in azione e in costante metamorfosi. Quasi in un dotto saggio antropologico. In un’enciclopedica narrazione di un passato prossimo fatto di tradizioni, usi e costumi dimenticati. Il tutto filtrato attraverso un onirico e poetico mondo interiore.
Le tele sono in genere di medie dimensioni e di orientamento orizzontale: 50 x 70 cm o 60 x 80 cm. Ma due in particolare, in mostra alle Stelline, spiccano per grandezza: 150 x 270 cm. Paesani che vanno a messa e Processione di Santa Lucia, entrambe opere del 1998. Il lato religioso del popolo abruzzese. L’ordine e il rigore, mescolati al tratto laico e selvaggio del paesaggio. Il dettaglio e la totalità. L’individualità e la collettività. In uno stile grandangolare che offre ampi panorami reali e immaginifici.
Un'artista contadina, stimata e ammirata da uno scenografo e scrittore quale Cesare Zavattini. Ideatore del Premio Nazionale dei Naïfs di Luzzara (Reggio Emilia), al quale Annunziata ha partecipato per ben sette volte. Un’artista generosa e feconda. Sino agli ultimi periodi della sua esistenza (è scomparsa nel 2018, a novant'anni). Quando per lavorare se ne stava seduta, ruotando i maxi pannelli di 180 gradi e dipingendo a rovescio. Pannelli che ancor oggi si possono scorgere sulle facciate di alcuni edifici nella natìa Azzinano. Borgo dei murales.
Il Fuoco della Terra è visitabile dal martedì alla domenica, dalle 10 alle 20 (ingresso libero). A dare un contributo all’inaugurazione dell’esposizione? Un’importante maison teramana quale Verrigni, Antico Pastificio Rosetano che affonda le radici nel lontano 1898. Condividendo con la Scipione genius loci, fede nel grano italiano e un senso solare del creare. Un entusiasmo del fare che ben si comprende parlando con Francesca Petrei Castelli, dea ex machina del pastificio. Sempre aperta a nuove idee. Vedi il Fusilloro, lo Spaghettoro e lo Spaghettoro Affumicato. Uno spaghetto trafilato in oro - grazie alle trafile messe a punto dal maestro orafo pescarese Alessandro Seccia - dall'elegante aroma fumé. Un prodotto unico al mondo, che crede nell’essiccazione lenta non rinunciando alle avanguardie del gusto. Uno spaghetto rivoluzionario, che Luca Seveso, resident chef del Maio Restaurant - al settimo piano della Rinascente di Milano -, ha saputo trasformare in capolavoro, complici acciughe, lime e perle di caviale. Uno spaghetto che, come Annunziata, ha saputo cogliere il fuoco della terra.
Foto delle opere e dell'inaugurazione della mostra by Marco Di Marcantonio