Solo vitigni pinot nero e chardonnay: coltivati in vigneti posizionati a più di 250 metri di altitudine e lavorati in purezza o in combinata. Solo bottiglie millesimate, con l’annata ben impressa in etichetta. E un affinamento sui lieviti di almeno 30 mesi, che si allunga oltre i 36 mesi per le riserve. È rigido e severo il disciplinare dell’Alta Langa. “Perché noi vogliamo giocare nel campionato più difficile. Dove ci sono quelli bravi”, spiega Giulio Bava, presidente di un consorzio ambizioso, che riunisce vigneron e maison.
“Sì, un consorzio che raggruppa vignaioli e aziende. Terre e uomini. Per questo abbiamo voluto venire tutti insieme a Milano. Per presentarci a un pubblico di consumatori colti e preparati. Portando la grande tradizione del nostro metodo classico. Il primo metodo classico italiano. Creato a metà dell'Ottocento e che da vent'anni ha un nome preciso”, continua Giulio, nell’ouverture di una giornata che ha condotto le alte bollicine piemontesi nella metropoli lombarda. Dando vita a La Prima dell’Alta Langa: un “gran ballo delle debuttanti”, di scena a Palazzo Serbelloni fra specchi, stucchi e cristalli. Giusto per ritrovare nel piano nobile un tocco d’aristocratica “sabaudità”.
“Non v’è dubbio. Il nostro è uno spumante dal forte carattere piemontese”, dice Sandro Minella, che nel consorzio si occupa di formazione. “Un vino legato al territorio. Un vino dallo spiccato senso di appartenenza”, prosegue. Raccontando - in una mastarclass - l’Alta Langa in cinque calici: una delicata e floreale cuvée di pinot nero e chardonnay, affinata per 30 mesi; un più intenso e profondo blanc de noirs (pinot noir in purezza), lasciato sui lieviti per una quarantina di mesi; un elegante blanc de blancs con 48 mesi di affinamento; un succoso rosé a base di pinot nero al 100% (con 36 mesi sui lieviti) e una sontuosa e regale Riserva, pronta a vantare ben 60 mesi sui lieviti. Confermando la capacità d’invecchiamento di questo vino.
Uno spumante variegato l’Alta Langa. Che può essere bianco e rosé, brut e anche pas dosé. Uno spumante che predilige terreni marnosi (composti da argilla e limo) e temperature moderate (con forti escursioni termiche). E che nasce esclusivamente in collina. Anzi, nella fascia collinare a destra del Tanaro, inanellando le province di Asti, Alessandria e Cuneo. “Ma non è uno spumante nuovo. Tutt’altro. Vanta una lunghissima tradizione”, tiene a puntualizzare Minella. Corre infatti il 1848 quando Carlo Gancia si trasferisce a Reims, per carpire i segreti del metodo di produzione dello Champagne. Nel 1850 torna in Italia, per fondare a Chivasso (col fratello Edoardo) la Fratelli Gancia, in seguito trasferita Canelli, in quelle Cattedrali Sotterranee oggi Patrimonio dell’Umanità Unesco. Ed è nel 1865 che mette a punto il primo metodo classico italiano. A base di moscato. Ma portando avanti un’accurata ricerca nell’impianto di barbatelle di pinot nero e chardonnay. La tradizione aveva premuto il suo start.
Una tradizione che prosegue sino ad oggi. Con un nebuloso periodo postbellico. “Nel secondo dopoguerra tutti puntarono più sul brand che sul territorio”, racconta Minella. Finché le cose cambiano. Nel 1990 viene ufficializzato il “Progetto Spumante Metodo Classico in Piemonte”, per poi trasformarsi nell’associazione “Tradizione Spumante” e “Case Storiche Piemontesi”. Nel 1999, il primo brindisi con l’Alta Langa. Che dà forma al consorzio nel 2001. Mentre la doc arriva nel 2002. E la docg nel 2011.
Un vino gastronomico. Come ama sottolineare il presidente Giulio Bava. Uno spumante che ben incontra il tartufo, per esempio. Primo su tutti il tartufo bianco d’Alba, la cui fiera internazionale prosegue sino al 24 novembre. “Il tartufo è un prodotto spontaneo. Un fungo ipogeo che cresce e vive in simbiosi con piante arboree o arbustive. E non si può assolutamente coltivare. In particolare, il tuber magnatum pico esibisce una forma globosa, una dimensione variabile e una tonalità che va dal giallo pallido al marrone chiaro. Si raccoglie a partire dalla tarda estate, sino all’inizio dell’inverno”, spiega Isabella Gianicolo, biologa del Centro Nazionale Studi Tartufo.
Non lesinando qualche consiglio sull’acquisto. “Il tartufo deve presentarsi sodo, turgido e compatto. Leggermente elastico, ma non gommoso. E poi deve essere sporco. La terra ne mantiene integra la freschezza. Si conserva per una settimana in frigorifero, a 3-6°C, avvolto in carta assorbente o chiuso in un barattolo di vetro. Non nel riso. Guai. Il riso toglierebbe tutta l’umidità al tartufo. Che, prima del consumo, va lavato e spazzolato ben bene sotto l’acqua corrente e asciugato. Per poi essere consumato crudo. Esclusivamente crudo. Ridotto a lamelle con l’apposita mandolina”.
E nuovo, nuovissimo, è l’apposito affetta tartufi griffato dallo chef Davide Oldani, realizzato grazie all’expertise di Ambrogio Sanelli, che a Premana, nella lecchese Alta Valsassina, forgia coltelli di superba qualità. Il suo nome? XFETTA, giusto a condensare in un oggetto bello, iconico e performante quel gesto perfetto che dispensa la fetta ideale. Seguendo la regola della replicabilità. Un oggetto pronto a sintetizzare un concetto e un progetto: quello di valorizzare il tartufo e il suo profumo intenso e travolgente. Sopra un uovo, sopra una fonduta, sopra un piatto di tajarin, sopra una battuta di carne cruda.
Meglio ancora, se in abbinata a un Alta Langa, servito nel calice “Grande”, targato Giugiaro Design. Un calice di fascino, unico ed esclusivo. Che enfatizza il perlage grazie a una base stretta e a un’imboccatura via via più larga. Segni particolari? La zigrinatura elicoidale sullo stelo, che ne facilita l’impugnatura; e il piede circolare, modellato in modo tale da rammentare il dolce e sinuoso movimento collinare.
Ma le alte bollicine piemontesi vanno felicemente d’accordo pure con un altro prodotto emblematico della regione: la nocciola tonda e gentile. Come quella di Cravanzana, targata Nocciole d’Elite, maison capitanata da Emanuele Canaparo. Che guida 25 ettari interamente coltivati a noccioleto. Per poi produrre nocciole tostate, farina, granella e pasta di nocciole, nonché una crema spalmabile.
Dunque: Alta Langa e nocciole, per un aperitivo alternativo; Alta Langa e marron glacé (by Agrimontana), per un dessert chic; Alta Langa e formaggi autoctoni, per uno stuzzichino di classe. E quelli del Caseificio dell’Alta Langa, posizionato a Bosia, sono un esempio eccellente. Fra gli highlights? La robiola di Roccaverano, da puro latte di capra; la “Robiola Bosina” (da latti vaccino e ovino), dalla pasta molle, dalla forma quadrata, dalla texture cremosa e dagli aromi di burro e fieno; e il “Carboncino” (da latti vaccino, caprino e ovino), dalla pasta tenera e dalla caratteristica crosta scura, dovuta ai lavaggi col carbone vegetale durante i processi di stagionatura. Retaggio dell’antica cultura di conservare il cacio nella cenere. Perché anche la tradizione sa evolversi. Alta Langa insegna.
Foto in gallery by Consorzio Alta Langa / Lavezzo Studio