“Sono nato qua. Proprio qua. Nella comasca frazione Cavallasca di San Fermo della Battaglia. Ma quindici anni fa ho deciso di andare via. Così ho preso la valigia e sono partito. Verso nord. Verso Londra e Copenhagen. Ma lo scorso maggio sono tornato a casa e per caso ho trovato questo spazio”, racconta Mirko Gatti: classe 1981, per tanto tempo nomade fra Regno Unito e Danimarca e ora rientrato in patria, alle origini. Per piantare un seme tutto suo. E per farlo germogliare, battezzandolo col nome vigoroso di Radici.
Radici. Come ricerca di un nuovo inizio, per una nuova ripartenza. Come forza in fieri. Come essenza, verità, autenticità. Come terra che tende al cielo. Come selvaggio, sostenibile e salutare. Come mimesi dell'habitat naturale. “Sì, all’inizio avevo pensato di soffermarmi sul territorio. Ma poi mi sono detto: perché limitarmi? La natura è tutto. È mare, lago, montagna, pianura, collina, bosco. Così ho deciso di raccontare differenti habitat, seguendo le stagioni che al meglio li rappresentano”, spiega Mirko. Che se d’inverno punta dritto al contesto marino, con la primavera vira verso le sponde e gli abissi lacustri. Mentre finita l’estate entra nella foresta, cogliendone frutti, bacche, funghi e selvaggina. “Certo, mi lascio ispirare dall’intero habitat. Senza pormi barriere. Il che significa sia il mondo vegetale sia quello animale. Cacciato o allevato”, continua Gatti. Che trasforma paesaggi in assaggi, indagandone la superficie, gli angoli, le anse e le profondità nascoste.
Così il mare non è solo pesce e crostacei, ma è pure alghe, lattughe, erbe della riviera e plancton. E se le seppie svelano il loro lato bianco, bisogna ricordare che ne hanno anche uno nero. E i calamaretti? Vivono in acqua, ma finiscono sulla brace ardente, corredati di un’emulsione del loro fegato e del loro inchiostro. Mirko lavora sulla verticalità dell’ingrediente. Senza mai dare nulla per scontato. E senza mai lasciarsi accalappiare da stereotipi o cliché. “Altrimenti rischi di essere sempre uguale a te stesso”, precisa. Mentre presenta la sua trilogia di sedano rapa. Un solo elemento, diverse consistenze. “Ormai è diventato il mio cavallo di battaglia. Non posso più toglierlo”. Un piatto iconico, integralmente green. O meglio, c’è una parte eburnea, data da una vellutata della radice alla griglia; una zona verde, concessa da un olio alle foglie di sedano rapa; e una nevicata noir offerta da un crumble dell’ortaggio messo sulla brace, sino a bruciacchiarne la buccia.
Appassionato di alimurgia, Mirko rende spesso onore al foraging. Insieme alla sua compagna Sara, originaria di Cagliari. Si sono conosciuti a Londra, quindici anni fa. E non si sono più lasciati. “Usciamo a raccogliere. Se abbiamo bisogno di muschi, licheni e cortecce andiamo in montagna, in Val d’Intelvi. Se cerchiamo l’asperula odorosa o la cymbalaria muralis, camminiamo qua intorno”, puntualizza Mirko, indicando il Parco Regionale Spina Verde.
Intanto, sugli scaffali sfilano i loro selvatici gioielli, custoditi sotto vetro. Dalla rosa rugosa alla betulla bianca, dalla calendula alla melissa, dalle foglie di faggio ai fiori di girasole, dall’alga kombu alla dulse, dall’alga wakame alla hisiki, passando per i licheni delle renne. Perché lui al nord c’è stato. Conoscendo le cucine del Relæ e del Noma, ma lavorando anche nei londinesi City Social, Arbutus e Chiltern Firehouse, al fianco di Nuno Mendes.
Raccoglie, studia, sperimenta, ricerca Mirko. Nella sua “test kitchen”. Cimentandosi nella sapiente arte delle fermentazioni. Ma optando anche per cotture a bassa temperatura, sul fuoco, sulla brace e sotto la cenere. Inchinandosi ai metodi ancestrali ma non trascurando tecnologia e innovazione. Per proporre pietanze dalla personalissima cifra stilistica. Servite in un ambiente coerente. Minimale e scarno nella sua ieratica linearità.
Un luogo luminoso e materico, impreziosito da opere contemporanee e temporanee. Quasi una galleria d’arte. Sobrio contenitore di contenuti densi di valori. Per pranzare o cenare immersi nella quiete. Scandagliando l’habitat proposto dallo chef, oppure selezionando le singole pietanze: istantanee di un pensiero, di un’idea, di un messaggio circolare. In cui il dolce sconfina nel salato. In cui la verza caramellata compare accanto a cialdine di tapioca alle alghe e al nero di seppia.
Ma non mancano le incursioni fra un habitat e l’altro. Fra bosco e sgombro. Marinato a secco e poi tuffato in brodo tiepido di mela e sambuco. Complici resina di abete rosso, ginepro e pino mugo. “Ma è l’olio essenziale di tagete a dare l’energica sferzata alla vivanda”, puntualizza il cuoco, descrivendo una portata in bilico sul filo della salinità e della balsamicità.
Scuro, terragno e boisé è invece il piatto-ritratto della patata appena tolta dal suolo. Patate novelle, dunque, con pelle di funghi, tartufo nero lariano, terriccio di nocciole e di birra alle castagne - “La Marón” del del birrificio artigianale DuLac - e semuda, formaggio vaccino tipico dell’alto Lario occidentale. Il genius loci che si fa geniale. In abbinata? Lo “Stabia” 2014 firmato Dossi Retici, azienda vitivinicola di Montagna in Valtellina. Che opera nel pieno rispetto del terreno e che in questo vino sapido ma fruttato sintetizza ben tre varietà di nebbiolo, unite a rossola e brugnola.
Toni candidi e sfumature viola poi per gli gnocchetti di ricotta. Confortevoli come quelli della nonna, audaci per il tocco coraggioso di Mirko. Nappati come sono da una crema di formaggi dell’azienda agrobiologica Val Mulini, per poi esser completati da fiori, olio al pino e terriccio di radici fermentate: spinaci di montagna (colti sopra i 1.800 metri di quota), achillea millefoglie, genziana, scorzonera, topinambur e cicoria. In tandem, lo spumante naturale integrale dosaggio zero “La Matta” annata 2017 by Casebianche, di Torchiara, nel Cilento. Un fiano in purezza sur lie, un po’ folle e per nulla banale.
Umami e tenerezza invece a rincorrersi nello scamone di manzo. Cotto alla perfezione e laccato con sciroppo di porcini lacto-fermentati. Intorno: salsa di ribes neri, pioppini e aromi di bosco. Nel calice: il biologico “Cantomoro” 2010 di Tunia, maison aretina di Civitella in Val di Chiana. Un cabernet sauvignon dai tratti aristocratici, ottenuto dai vigneti più giovani dell’azienda.
Per dessert? “Passeggiata in pineta”, che elegge a protagonista uno smeraldino sorbetto di thuja (conifera della famiglia delle cupressacee), oppure un incontro ravvicinato con un gelato all’orzo e miso d’orzo (koji addicted), crema alle nocciole, crumble di cereali soffiati e riduzione di birra. Ideale da accompagnare con un kombucha alla mela. “Ma questo tè fermentato lo prepariamo anche alla rosa e alla verbena”, aggiunge Mirko.
Che mette in lista pure caffè di radici e infusi: di ribes nero, betulla e biancospino; di verbena, erba ananas e fiori di monarda. Favolosi compagni di una camaleontica piccola pasticceria. Visto che a tavola giungono finti rametti dai sentori nocciolati, laccati con melata di bosco e spolverati con polveri di rose canina e rugosa; nonché fake pigne al cioccolato fondente e false cortecce-cookies. Un vero camuflage, pronto a ricordare che la natura è anche gioco e ironia.
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