Rosso. A far da pendant al Ponte Vecchio. Detto anche degli Alpini e recentemente eletto a monumento nazionale. Legno. A ricordare il materiale col quale fu costruito (e ricostruito) tal ponte coperto. Già esistente a partire dagli inizi del Duecento, plasmato da un grande progetto di Andrea Palladio nel 1569 e oggi in pieno restauro. Sì, unisce rosso e legno la Premiata Fabbrica Pizza di Bassano del Grappa. Quasi a rinsaldare memoria e modernità, presente e antecedente. Risorta, come un’araba fenice, proprio là dove un tempo vi fu la premiata fabbrica di ceramiche artistiche G. Bonato (e in seguito una libreria). “Il distretto di Bassano, Nove e Marostica è famoso per le ceramiche. E qui nel mio locale, dove prima vi erano le vasche, le macine e il forno per creare gli impasti e cuocerli, oggi noi abbiamo un laboratorio attrezzato. In una sorta di coerente leitmotiv col passato”, spiega soddisfatto Massimo Frighetto, patron della pizzeria che se ne sta a un lato del camminamento sul Brenta. All’incipit di quel quartiere chiamato borgo Angarano. Quasi una casa sul fiume.
Tre i livelli sui quali si sviluppa la pizzeria. “Perché a Bassano tutto è costruito in verticale”, precisa Max. Quindi, al livello più basso, il lab. A quello intermedio, la cantina, una sala e il bancone bar, con corredo di capiente gabbia-voliera, pronta a far da scrigno a una gran quantità di liquori e distillati (circa ottocento). Infine, al livello strada, la zona asporto (aperta dalle 10 alle 23, eccetto il lunedì), un’area con cucina a vista (e con madie simili a ghiacciaie, realizzate su misura) e la saletta principale. Intima e raccolta. Ma con le finestre spalancate sul ponte e sul lento andare del Brenta. E intorno alle window? Piccoli giardini pensili, preziosi di piante aromatiche e peperoncini. Di una dozzina di varietà differenti. Tra le più piccanti. “Li tritiamo e li misceliamo con i peperoncini dolci calabresi. Per creare un blend non eccessivamente strong”, spiega Massimo. Che propone a tavola - insieme all’origano - i suoi esuberanti mélange.
Massimo. Bassanese doc, classe 1970. Lo stesso anno in cui i genitori Dino e Adriana fondano la Frighetto Mobili. Attiva nel settore del living e della progettazione-realizzazione di alberghi, ristoranti, residence, biblioteche, ville, banche e boutique. Il futuro è segnato. E invece no. Perché Max si diploma analista contabile, ma parallelamente frequenta l’Enaip, ottenendo il diploma di aiuto cuoco, cuoco e cuoco specializzato nella cucina veneta. “Quello per la cucina era e rimane un grande amore. Perciò non ho fatto alcuna fatica a portare avanti entrambe le scuole”, racconta il patron. Che, fino al 2003, resta fedele agli arredi e alle costruzioni di famiglia. Con qualche “tradimento”. Nel senso che diviene assaggiatore di grappe e distillati, sommelier, aspirante barman e assaggiatore d’olio. Per una completa formazione sul campo. Cui concorrono il Master della Cucina Italiana (all’Esac di Vicenza) e due stage nel Padovano: dal maestro pasticcere Luigi Biasetto e al tristellato Le Calandre. Intanto, la catarsi ha avuto inizio. Nel 2004 dà infatti forma a Markà. Una sorta di mercato contemporaneo, con wine bar e ristorante. Un Eataly ante litteram, per capirci. Sinché nel 2007 apre le porte del Caffè Ponte Vecchio (di cui tiene le redini fino al giugno 2019) e nel 2015 inaugura la Premiata Fabbrica. Il ponte è colonizzato. Massimo ne va fiero.
Così com’è orgoglioso dei suoi kombucha. I tè zuccherati e fermentati che, da vero alchimista, mette a segno nella cantinetta. Tutta colpa di Luca. Il figlio di mezzo (Mirco è infatti il primogenito e Davide è il più giovane). “È stato Luca, specializzato in Scienza dell’Alimentazione, a trasmettermi la passione. Stava lavorando a una colonia di batteri e lieviti così…”. E così Massimo di kombucha ne fa di ogni tipo: all’orzo, al caffè, al finocchio e zenzero, ai frutti di bosco, alla camomilla. “Certo, in genere parto da un tè di Ceylon o da un verde gunpowder. Ma il kombucha si può fare partendo da qualsiasi liquido”.
Invece, l’idea di inserire il kombucha nell’impasto viene da PizzaUp. “A una lezione abbiamo notato lo chef Oliver Piras utilizzare un kombucha al caffè”, svela Massimo. Al cui fianco sta il pizzaiolo Michele Colpo: annata 1989, origini in quel di Conco (sull’Altopiano dei Sette Comuni, nel Vicentino), studi da elettricista, cinque anni come cuoco specializzato in bio e poi qui, alla “fabbrica” di Max. Dove prepara il pane col lievito madre, arricchendo l’impasto con kombucha al tè verde o alla camomilla. “Perché il kombucha esalta la fragranza e il profumo del pane. E anche la crosta appare più vitrea”, puntualizza Michele. Che cambia pagnotte ogni die: miscelando Petra 1 con la farina di grano tenero madonita o con quella di grano duro (e antico) tumminia; la farro monococco biologica o la millegrani con la Petra Bio 1111. Firmata Molino Quaglia. Visto che la Premiata Fabbrica fa parte dell’esclusivo network dei Petra Selected Partners. “Ma sto iniziando a inserire il kombucha anche negli impasti della pizza”, dichiara Michele. Che non smette mai di provare e di sperimentare.
Intanto, la carta presenta le pizze suddivise in due grandi tipologie di impasto: con lievito madre e senza lievito madre. In entrambi i casi la pizza si presenta tonda, ben alveolata e servita in sei spicchi. Ma cambiano le farine. Ecco allora che la pasta madre sposa meglio le farine a macinazione a pietra potenziata (il cosiddetto Augmented Stone Milling) Petra 3 (che dà struttura), Petra 5 (che regala sofficità) e Petra 9, l’integrale di casa Quaglia. Mentre la lievito free nasce dalla fermentazione spontanea di un germinato di grano tenero, unito ad acqua e a Petra 1. A cui poi viene aggiunta Petra 3. “Ma in autunno mi piacerebbe proporre anche una pizza tonda al farro monococco e la pizza in pala con Petra 3 e Petra 9. Per poi arrivare a presentare quella con Petra Evolutiva e un po’ di biologica, nonché la pizza al padellino. Magari integrale o con i grani antichi siciliani”, rivela il giovane Colpo.
E sulle pizze? Tante verdure, ma anche molti prodotti selezionati con cura, spesso tutelati come Presìdi Slow Food e figli di piccole produzioni. Pronti a dare il vero imprinting alle pizze. Che, iconiche a parte, nascono da inconsueti abbinamenti e dalla valorizzazione di ingredienti rurali e artigianali. Così la classica "Margherita" incorona i pomodori prunilli by Petrilli (maison foggiana di Lucera), fiordilatte e basilico. Mentre la “Margherita Gialla” predilige i pomodori yellow in salsa dell’azienda salentina I Contadini; e la “Burrata, cotto & olive” sceglie i pomodori campani Gustarosso, complici burrata pugliese, prosciutto cotto alla brace, olive taggiasche e basilico.
E se la “Altopiano di Asiago” inanella mozzarella, asiago pressato, asiago stravecchio della Malga Verde - Fattoria Cortese (di Conco) e speck dolcemente affumicato dei Colli Berici, la “Montegrappa” chiama all’appello mozzarella, morlacco del Grappa by Ivan Andreatta (di Solagna), melanzane, prosciutto cotto alla brace e il formaggio Collina Veneta del caseificio sociale San Rocco (di Tezze sul Brenta). Collina Veneta (ma in versione stravecchio) che invece nutre la “Bresaola”, insieme a rucola e a zucchine lasciate fermentare… nel kombucha di camomilla. Bresaola locale, naturalmente. Del salumificio Fratelli Billo di Cismon del Grappa. “E presto introdurremo la bresaola e il carpaccio di bufala”, confessa Massimo.
E la “Mortadella”? Eccola: quella classica, targata Bonfatti. Sposata con funghi al limone, zest di limone e wasabi. Una pizza delicata e freschissima. Perfetta anche nella bella stagione. Che, ovviamente, ha la sua pizza dedicata: “Estate”, cui concorrono pomodoro, mozzarella di bufala campana, misticanza, pomodorini all’aceto balsamico e quinoa soffiata. Mentre la “Porchetta & Peperoni” riassume porchetta di Ariccia, casatella trevigiana, nasturzio e peperoni marinati. Che, insieme alla cipolla, finiscono pure sulla signature “Premiata Fabbrica”, con pomodoro, spianata calabra e gorgonzola al cucchiaio. “L’input della cipolla e peperoni marinati è venuto da Eugenio Boer, durante un laboratorio, sempre a PizzaUp”, ricordano Massimo e Michele. Capaci di pescar spunti qua e là.
E per chi ama la “Vegana”? Voilà: crema di rucola, zucchine, melanzane, pomodorini, carote essiccate e amaranto soffiato. “Io ho la fissa per le verdure. Ciascuna deve raggiungere la croccantezza perfetta”, dice Michele. Che alla pizza ortaggi oriented abbina l’impasto senza lievito. Connesso anche con la “Bufala & Acciughe”, che in realtà proprio acciughe non sono. Visto che si tratta di filetti di alacce di Lampedusa. Simili alle alici, tutelate come Presidio Slow Food e firmate Fish Different, marchio di Calabriaittica. Alacce che danno energia pure alla “Pantelleria”, insieme a capperi dissalati, pomodori semi dry, origano, colatura di alici e ricotta del caseificio vicentino San Rocco. Giusto per un tocco local. La pizza “Veneto” invece incorona chips di mais biancoperla della tenuta Borgoluce (di Susegana), casatella, coppa e caponata di verdure. E la "Capasanta" strizza l'occhio al mare, portando con sé la terraferma, grazie a salsa dip di melanzana, lardo, zucchine e Bassanese, delizia del Caseificio Castellan di Rosà.
E come dessert? “Per mantenere alta la qualità ci affideremo alle monoporzioni della Pasticceria Marisa, guidata da Lucca Cantarin”, anticipa mister Frighetto. “Sì, stavo già pensando ai boccacci. Termine dialettale per indicare i barattoli. Tipo la Marisa 4.0. Rilettura di un nostro cult ma senza il pan di spagna”, conferma Lucca. Che nel vasetto posiziona crème brûlée al pistacchio, composta al lampone e ganache al cioccolato bianco Ivoire di Valrhona e vaniglia del Madagascar.
Attenzione costante. Pure sui vini (in bottiglia e al calice). Privilegiando nettari naturali e vitigni autoctoni. Vedi il bianco frizzante, minerale e agrumato “Solo per noi!” by Cavazza (a Montebello Vicentino), ottenuto da uva durella e garganega, e da una fermentazione naturale in bottiglia sui lieviti indigeni; oppure il “Pedevendo”, altro frizzante sur lie, ma figlio dell’uva autoctona pedevenda. Coltivata a Breganze da Firmino Miotti. E ancora il “Crode Rosse”, nato dalla cultivar pavana e griffato dalla maison feltrina Terre dei Gaia.
Non trascurando le birre artigianali. Come “La Fresca”, birra simbolo di Bassano, a bassa fermentazione e non filtrata; la bionda, decisa e di carattere “La Cancelliera” di Ofelia, maison di Sovizzo; la complessa “Lipa” del birrificio trentino Binoć; la “Guerrilla” by Crak Brewery, dal finale piacevolmente amaro e persistente; nonché la blanche “Minela” del trevigiano Bradipongo.
E se l’acqua è la Lissa - a chilometro corto, perché giunge dalle fonti di Posina -, pure i succhi Bevi Frutta della cuneese Baladin vengono da albicocche, pere e pesche raccolte nelle Langhe (nell’organic farm di Mariangela Prunotto), per poi essere impreziositi da bergamotto, zenzero e coriandolo. La mission è sempre quella: rendere onore alla filiera sostenibile e trasparente. Tant’è che non mancano gli infusi di orzo mondo (tostato e macinato: puro e all’anice) di Giacomo Santoleri e del suo Casino di Caprafico, nella chietina Guardiagrele. Mentre il caffè è della torrefazione veronese Giamaica, preparato con una Faema datata 14 giugno 1965.
Ma la grappa? Qui alla Premiata Fabbrica non manca. E finisce persino nel dentifricio. Proprio così. “Tutto nacque per caso, dopo un corso che feci col mixologist Dario Comini, al Nottingham Forest di Milano. Ci insegnò a fare una spuma a base di panna vegetale e alcol. Che poi io proposi in versione grappa, presentando il cocktail in un tubetto. Poi cambiai la formula, che divenne acqua, zucchero e gelatina alla grappa. Si chiamava Dentifricio Spiritoso alla grappa Nardini. Ma tutti mi chiedevano: non lava i denti? Così mi venne l’idea di creare un vero e proprio dentifricio alla grappa, miscelandola ad acqua, argilla, erbe aromatiche e oli essenziali”, commenta Max. Geniale.
Ora la sfida è quella di mettere la grappa nella pizza. O sulla pizza. Spruzzandola come fosse un profumo. Massimo ce la farà.
Un consiglio per il soggiorno. A due passi dal locale spiccano gli Appartamenti Ponte Vecchio, con magic view sulla città. Si tratta di due super suite: una da quattro posti letto, battezzata “Andrea Palladio”; e una maxi da sei persone, intitolata al pittore “Jacopo da Ponte”. Non ci si può sbagliare. Basta farsi guidare dalla scultura Il Bacio, forgiata dall’artista Severino Morlin. Che se ne sta lì, immobile ed eterna, sull’angolo fra via Angarano e via Volpato, a ricordare una canzone popolare: “Sul Ponte di Bassano, noi ci darem la mano, noi ci darem la mano, ed un bacin d’amor”.
Foto in gallery di Stefano Scatà
Foto ritratto di Massimo Frighetto e Michele Colpo a PizzaUp by Carlo Baroni