Si può fare come si è sempre fatto. Oppure cambiare prospettiva. Si può andare per la stessa strada. Oppure deviare verso una nuova meta. Si può scegliere il solito posto. Oppure sperimentare qualcosa di differente. Quasi a dire che nella vita esiste sempre un’alternativa. “Sì, noi vogliamo dire che siamo diversi e che sappiamo fare le cose in modo diverso. Qualche volta anche meglio”, spiega con orgoglio Lorenzo Galletti. Un manager del settore delle telecomunicazioni che, come il collega Leonardo Nardella, ha avuto il coraggio di alimentare un progetto qual è il ristorante Altriménti, a Milano. “Con l’accento. Perché in genere non si mette mai. Eppure c’è. E abbiamo voluto evidenziarlo”, precisa Lorenzo.
Ma non sono soli. Con loro due colonne portanti dell’alta ristorazione quali lo chef Eugenio Boer e il maître e sommelier di origini polacche Damian Piotr Janczara, già insieme nell’avventura di Essenza. Di cui Leonardo e Lorenzo erano fedelissimi clienti. Ecco spiegato il voler voler chiudere un cerchio. Anzi, aprirne un altro. In una zona moderna e in perenne fermento come CityLife, in bilico fra verde e design. Proiettata al futuro, ma ancora poco contaminata dalla brezza gourmet. Da qui Altriménti, al principio di via Monte Bianco e a due passi (ma proprio due) dalla fermata metropolitana di Amendola. Fra mura da sempre votate al cibo. Basti pensare che la cantina è rimasta così: com’era stata pensata da Claudio Sadler al tempo del suo Wine & Food, a metà degli anni Novanta.
Una cave spaziosa, posizionata al piano inferiore e pronta a ospitare persino un tavolo vip da sei persone. Un desco privato e riservato. Così come riservato è un ingresso secondario. Con accesso diretto alla cantina. “Che vuole un po’ essere la stanza dei giochi. Perché qui si possono assaporare i piatti, ma anche salumi e formaggi. In totale libertà e relax. Scegliendosi la bottiglia preferita”, racconta Lorenzo.
Ma è salendo la scala rivestita in resina amaranto che si raggiunge il cuore del ristorante. Articolato in tre aree differenti. Diverse per atmosfere, suggestioni e funzioni. Affinché il senso dell’altrimenti contagi pure gli ambienti. Che portano la firma dello studio milanese Offstage, complice il contributo alla direzione dei lavori dell’architetto Alessandra Ubertazzi. Dunque? Un salotto d’ingresso; una veranda dall’aura intima e raccolta, un po’ più appartata, pronta a sfoggiare una boiserie in sughero tostato e raggiungibile attraverso un’altra breve scala in metallo; nonché un esclusivo privé (con una ventina di coperti) nel quale campeggia uno scenografico lampadario griffato dalla maison di Barcellona Santa & Cole. Che strizza l’occhio alla carta da parati dai tratti geometrici e a un pavimento in tessere di marmo verde laguna, piombato in opera. Quasi memoria dei mosaici scarpiani. Il tutto sigillato (volendo) da una porta a doppio battente a bilico, con inserti circolari in vetro. Cerchi, figure iconiche, reiterate qua e là.
E la sala principale? Eccola, caratterizzata da un soffitto a volta e da un parquet in rovere naturale, sabbiato e verniciato. Rovere che torna nella boiserie, insieme a una plissettatura laccata, sempre in tono amaranto. L’effetto? Decisamente conviviale e avvolgente. E pure un po’ ipnotizzante. Merito delle 76 illustrazioni che corrono lungo le pareti. Su due binari paralleli. Stampe dalle vivaci cromìe, targate da importanti illustratori contemporanei fra i quali Francesca Fusari (alias selapennamidisegna), già a capo del progetto di Offstage per il ristorante. “Possono far da spunto a una discussione fra i commensali”, precisa mister Galletti. Di certo nutrono la room con la gioia del colore e del tratto artistico. Mentre i tavoli esibiscono piani in legno o in marmo e le sedute sono le "CH20 Elbow" di Hans Jørgen Wegner per l’azienda danese Carl Hansen & Søn, e le "Ruelle" del giovane design francese Philippe Tabet per la trevigiana Infiniti. Rilettura contemporanea delle sedie tipiche di bistrot e brasserie.
Un linguaggio vocato alla contaminazione e all’integrazione del “diverso” quello adottato da Altriménti. Un lessico misto, capace di influenzare anche la cucina. Presidiata dal resident chef Marco Annunziata - già sous-chef a Pisacco -, sotto la regia di Eugenio Boer: classe 1978, radici italo-olandesi, nato (per caso) a Rapallo, cresciuto a Voorburg e tornato in Liguria, a Sestri Levante. Per poi ripartire, lavorando in cucina. E inanellando Palermo e Berlino, la Toscana di Arnolfo e l’Alto Adige di Norbert Niederkofler. Infine? Milano, prima alle redini di Enocratia, in seguito di Essenza, che conquista la stella Michelin. Mentre oggi guida [bu:r], insegna che urla la pronuncia - e la trascrizione fonetica - del suo stesso cognome. Fugando ogni dubbio.
Una cucina intrisa di materia prima, di stagionalità e solidità quella che Eugenio propone da Altriménti. Che mette l’accento sugli artigiani e sui produttori. Preferibilmente non distanti geograficamente. Favorendo così una filiera corta, foriera di freschezza. Una cucina di ingredienti: familiari, rassicuranti, eppur innervati da un guizzo di genio. Della serie: l’allure della tradizione c’è, ma c’è pure qualcosa di diverso da quello che si mangerebbe a casa. Il tutto strutturato per contenitori, campi semantici di degustazione. Messa al bando la comune suddivisione fra antipasti, primi e secondi, sono infatti i macro temi delle carni, dei pesci, delle verdure e dei dessert a ritmare la carta. Nella quale non ci si può perdere. Scegliendo di rimanere coerenti con un “concetto”, altrimenti di vagabondare senza confini dalla terra al mare. Della serie: si può mangiare in verticale, oppure zigzagare. Provando diverse alternative.
Per capirci. Sotto il cappello green di ortaggi, frutti ed erbe non appaiono solo contorni. Macché. Bensì la carota con nocciola, olive taggiasche e crema di caprino; l’uovo con patate, porri e cicoria; il carciofo con riso, menta e aglio nero; la pasta e fagioli con cardoncelli e datterini; gli spatzle con peperoni, olive, basilico e castelmagno; e il cavolo cappuccio con yogurt e senape.
Per i meat lover? Risotto alla milanese con ragù di vitello, nonché mondeghili, patate e aneto per rimanere ancorati ai cult ambrosiani. Lingua di vitello, fave, gamberi e arancia; maccheroni, salsiccia, broccoli e caciocavallo; cinghiale, erbe di campo, crema di pecorino; faraona, cavoletti di Bruxelles e melograno; agnello, indivia e spinaci per guardare oltre.
E per un tuffo in acqua? Voilà gli spaghetti alla chitarra con cozze, pomodoro e limone; la seppia con calamaro, zafferano e rucola; il rombo con funghi, scalogno e rafano; il polpo con giardiniera, pane e rosmarino; il baccalà con polenta e peperoni; e l’astice alla catalana. Il mare pop e il mare top.
Mentre i dessert spaziano dal tiramisù alla sacher, dal babà alla panna cotta con biscotto al cacao, composta di limone salato, mandorle armelline e polvere di olive.
E pure la wine list è differente. Perché contempla circa 250 etichette ma è in itinere, sempre alla ricerca di qualcosa di inedito. Perché dà spazio a piccole produzioni e a vignaioli indipendenti. Perché non è suddivisa in categorie, tipologie, vitigni o regioni. Ma va per sensazioni, emozioni, caratteri. Evidenziando l’identità e la personalità delle etichette. Che possono essere frivole (aromatiche e floreali) o romantiche (dolci e fruttate), rustiche (tanniche e speziate) o mediterranee (solari e sapide), gioiose (leggere e piacevoli) o generose (mature e succulente), luminose (in una lode al pinot nero) o potenti (profonde e intense). Come la Barbera dei Colli Tortonesi “Monleale" di Walter Massa o il Merlot “Rujno" della goriziana Gravner. Altrimenti? Ci sono gli orange wine, come il “Vino I” dell’azienda agricola Ancestrale. Una Malvasia delle Lipari da vecchie vigne, fermentata e affinata per un anno in anfore di terracotta. Il tutto viaggiando dall’Etna alla Valtellina, sino a sconfinare Oltralpe. Per una carta innovativa e ironica. Grazie alla poliedrica conoscenza in materia di Damian.
Del resto, qui si può venire per pranzare o per cenare (si badi bene, anche di domenica). Altrimenti? Per sorseggiare un buon calice conviviale.